The Age of Chaos. I primi cento giorni di Trump

La promessa era quella di una nuova «età dell’oro». I risultati sembrano indicare invece l’inizio di una turbolentissima «età del caos» o quanto meno «dell’incertezza». È questo in estrema sintesi – secondo molti osservatori – il bilancio dei primi cento giorni della presidenza Trump, dal 20 gennaio al 30 aprile 2025. 

Cento giorni, ovviamente, sono molto pochi per farsi un’idea e formulare giudizi o previsioni. Soprattutto nel caso di Donald Trump, che dal momento del suo insediamento alla Casa Bianca ha fatto dell’imprevedibilità il suo tratto caratteristico. Fin dall’epoca della prima presidenza di Franklin D. Roosevelt (1933-1937) e del New Deal, tuttavia, i primi cento giorni vengono tradizionalmente assunti come una significativa unità temporale per valutare l’operato dei presidenti Usa (e non solo) e per riflettere su quanto essi promettono per il futuro del loro mandato. 

Nel caso di Trump, come vedremo, è difficile orientarsi. Un dato, però, emerge con molta chiarezza. Ed è che gli Stati Uniti, un tempo faro della democrazia nel mondo (sia pure con molti limiti), stanno di nuovo imboccando la strada che conduce verso la cosiddetta «democrazia illiberale». Verso una forma di governo, cioè, che mantiene le forme della democrazia ma che al tempo stesso esaspera il rapporto diretto tra il capo e il «popolo», manifesta pulsioni autoritarie e mette sotto pressione i principi fondamentali del liberalismo e del costituzionalismo: la separazione dei poteri, lo Stato di diritto, i diritti individuali e le libertà civili. Se a prendere questa strada è poi la più grande potenza mondiale, i rischi sono ancora maggiori. Da un lato, per l’effetto di «contagio» che questo modello può esercitare su altri regimi democratici nel resto del mondo, soprattutto in Europa. Da un altro lato, per le conseguenze che esso può avere nel campo della politica internazionale, che nelle sue aree più calde (Ucraina, Medio Oriente, Indo-Pacifico) e anche in nuovi scenari (si pensi solo ai venti di guerra che soffiano tra India e Pakistan) sembra in effetti surriscaldarsi ulteriormente.

C’è da aggiungere, però, che non è la prima volta che il ciclone Trump si è abbattuto sull’America e sul mondo intero. Già la sua prima presidenza, tra il 2017 e il 2021, aveva suscitato grandi apprensioni. Lo stile fortemente populista e leaderistico, l’ossessivo richiamo al principio «America First», lo smantellamento delle politiche sociali, le misure fiscali a favore delle imprese e dei redditi più alti, le disposizioni restrittive sugli immigrati, la riduzione delle politiche ambientali, il corpo a corpo con il «politicamente corretto», la sfida con la Cina sul piano dei dazi e delle politiche commerciali e, da ultimo, il drammatico assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 avevano già restituito l’immagine di un’America fortemente polarizzata e in bilico, in preda a spinte autoritarie e decisa a far valere a ogni costo il proprio primato nel mondo. 

Da quel primo terremoto, tuttavia, gli Stati Uniti si erano in qualche modo ripresi con le elezioni del 2020 e poi nei quattro anni della presidenza di Joe Biden (2021-2025). È il segno che il paese aveva gli anticorpi per assorbire l’urto e che potrebbe forse averli ancora. La rielezione trionfale di Trump come 47° presidente, considerato nonostante tutto come una sorta di «usato sicuro», lascia però aperti molti dubbi.

Le promesse e i fatti

Abbiamo già visto estesamente in un precedente articolo che cosa aveva promesso Trump agli americani nella sua campagna elettorale per le elezioni del novembre 2024 e poi nel suo discorso di insediamento del 20 gennaio 2025. In estrema sintesi, aveva giurato di voler «rendere di nuovo grande l’America», con il celebre slogan «MAGA» – Make America Great Again – che campeggia ovunque nel merchandising trumpiano (tazze, cappellini, cravatte, magneti). Aveva cioè promesso di riprendere il cammino verso quell’«età dell’oro» che egli stesso, a suo dire, aveva già quasi raggiunto nel suo primo mandato e che il suo successore Biden aveva rapidamente rovesciato in un’età di «declino, rovina, dolore, difficoltà, ansia e disperazione». 

Per realizzare questo sogno, il suo programma elettorale aveva messo in primo piano soprattutto la politica interna: rinascita economica e lotta all’inflazione; politiche energetiche a suon di trivelle contro le follie del Green New Deal; rafforzamento delle manifatture e delle catene di approvvigionamento nazionali; sicurezza dei confini (in particolare con il Messico) e lotta all’immigrazione clandestina, legata a sua volta a quella contro la criminalità e il narcotraffico; law and order nelle città; guerra senza quartiere al politically correct, all’ideologia gender, alle teorie critiche della razza e più in generale alla cultura woke; abolizione di ogni restrizione Covid; lotta senza quartiere anche contro la corruzione del deep state, lo «stato profondo», vale a dire contro il «marciume» che si annida nel sistema giudiziario, nei servizi segreti e nella tentacolare amministrazione federale. Un’amministrazione da sottoporre a una robusta cura dimagrante, soprattutto nei confronti di quei funzionari «infedeli» che intralciano le «legittime» azioni del «governo del popolo». 

In politica estera, Trump aveva promesso di mettere fine a quelle «guerre straniere sciocche e inutili» che minacciano la pace nel pianeta, con particolare riferimento al all’Ucraina e al Medio Oriente. Al tempo stesso, in perfetto stile neoisolazionista, aveva annunciato di voler attuare un sistematico disimpegno da quei conflitti che non coinvolgono gli interessi immediati degli Usa. Aveva più volte ventilato di volersi disimpegnare dalla stessa Nato, soprattutto se gli alleati europei mostreranno di non volersi impegnare più a fondo incrementando il loro contributo alle spese militari dell’Alleanza. Per contro, aveva invocato un drastico potenziamento della forza militare americana, facendo anche riferimento – come già i presidenti Ronald Reagan e George W. Bush – alla costruzione di uno scudo antimissile di nuova generazione, in grado di mettere il paese al riparo dalla minaccia nucleare delle potenze ostili. Aveva altresì espresso mire esplicite sul Canada, la Groenlandia e il canale di Panama. Rapporti sempre più freddi con l’Europa, sempre più muscolari con la Cina e sempre meno ostili con la Russia di Putin completavano il suo programma, insieme alla promessa di una robusta politica di dazi commerciali contro tutto e tutti, Pechino in testa.

Sia pure in modo altalenante, è su queste linee di fondo che si sono andati svolgendo i primi cento giorni della seconda presidenza Trump. Essi sono stati scanditi da decine e decine di executive orders, di provvedimenti in capo al solo presidente, che non hanno bisogno dell’approvazione del Congresso e che diventano per l’appunto immediatamente «esecutivi», naturalmente se in linea con la Costituzione e le leggi federali. Un «se» che apre in prospettiva molteplici possibili fronti di conflitto con gli Stati e soprattutto con l’ordine giudiziario, dalle corti statali sino alla Corte Suprema, ferma restando la possibilità di un futuro presidente di abrogarli.

Come si può ricavare dal Federal Register (www.federalregister.org), Trump ha emanato 139 ordini esecutivi nei suoi primi cento giorni, a cui se ne sono aggiunti altri 12 dal 1° maggio a oggi (16 maggio). Si tratta di un record assoluto rispetto a tutte le presidenze precedenti, compresa quella di Franklin D. Roosevelt, che nel 1933, nei suoi primi cento giorni, ne emise «soltanto» 99. Il dato è strepitoso anche rispetto al numero complessivo di executive orders emessi dai suoi predecessori in tutto il corso dei loro mandati. Il che rende più che mai azzeccata la celebre formula coniata al principio degli anni Settanta da Arthur M. Schlesinger Jr. nel suo libro La presidenza imperiale (1973).

Joe Biden 2021-2025 162
Donald Trump I 2017-2021 220
Barack Obama I e II 2009-2017 277
George W. Bush I e II 2001-2009 291
Bill Clinton I e II 1993-2001 364
George H.W. Bush 1989-1993 166
Ronald Reagan I e II 1981-1989 381
Jimmy Carter 1977-1981 320
Gerald R. Ford 1974-1977 169
Richard Nixon I e II 1969-1974 346
Lyndon B. Johnson 1963-1969 325
John F. Kennedy 1961-1963 214
Dwight D. Eisenhower I e II 1953-1961 484
Harry S. Truman 1945-1953 906
Franklin D. Roosevelt II, III, IV (mancano i dati del I mandato) mandatodelprimoImamadamandato) (    1937-1945 2023 
     
* Questi dati e gli stessi testi degli executive orders presidenziali sono consultabili cliccando qui 

È soprattutto attraverso questi ordini esecutivi che Donald Trump ha provato a tradurre le sue promesse in fatti. Almeno per ora, tuttavia, i risultati sono ben lontani dal preannunciare l’avvento dell’età dell’oro. Come già detto, essi annunciano piuttosto una vera e propria «età del caos», assai pericolosa per l’America e per il mondo intero.

L’assaggio: il primo giorno della presidenza Trump

Nel primo giorno del suo insediamento, il 20 gennaio 2025, dopo il discorso inaugurale, Trump ha firmato ben 26 ordini esecutivi, dall’evidente significato simbolico oltre che pratico. 

Il primo in assoluto è l’ordine n. 14147, che ci riporta immediatamente ai fatti del 6 gennaio 2021, l’assalto a Capitol Hill. Si intitola «Ending the Weaponization of the Federal Government»: porre fine alla «militarizzazione» del governo federale, vale a dire alla sua trasformazione in un’«arma» (ovviamente impropria) contro gli oppositori. Sotto l’amministrazione Biden – recita l’EO – forze di polizia, servizi segreti, tribunali e altri soggetti e agenzie governative avrebbero fatto un uso partigiano dei propri poteri, colpendo sistematicamente i nemici del Partito democratico, specialmente i «trumpiani». Tra i principali accusati – si legge – vi è il Dipartimento di Giustizia, che «ha processato senza pietà più di 1.500 persone associate al 6 gennaio» mentre «ha contemporaneamente archiviato quasi tutti i casi contro i rivoltosi del Black Lives Matter». Da qui l’ordine di riesaminare meticolosamente quanto accaduto e di correggere e sanzionare i comportamenti scorretti del governo federale connessi all’uso improprio della giustizia, delle forze di polizia e dei servizi segreti. Si trattava, con ogni evidenza, di una vera e propria vendetta contro i suoi persecutori, accusati di aver compresso la libertà di parola e il diritto di opposizione di molti americani. Un tema, questo, ulteriormente rafforzato nel terzo EO, il n. 14149, emesso sempre il 20 gennaio e diretto a «ripristinare la libertà di parola e porre fine alla censura federale» in nome del primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.

Dopo aver revocato con l’EO n. 14148 un gran numero di executive orders di Biden sulle più disparate materie (clima, Covid, immigrazione, discriminazione sessuale e razziale, etc.), Trump fissava come principio direttivo della politica estera Usa il suo stesso motto elettorale fin dal 2016: «America First». È questo il contenuto, in verità vaghissimo ma altamente simbolico, dell’EO 14150: da quel momento, la politica estera americana avrebbe dovuto «difendere gli interessi fondamentali degli Usa, mettendo sempre al primo posto l’America e i cittadini americani». Al Segretario di Stato (Marco Rubio) veniva attribuito il compito di «emanare delle linee guida per allineare le politiche, i programmi, il personale e le operazioni del Dipartimento di Stato» a questo scopo supremo.

A seguire, sempre il 20 gennaio, un’ulteriore raffica di executive orders. Vale la pena di citarli quasi tutti, a partire da quelli contro i «dispendiosissimi, illegali e immorali programmi DEI» (Diversità, Equità, Inclusione) della precedente amministrazione (n. 14151). Poi, a tambur battente, gli EO per lo sfruttamento sistematico delle risorse naturali dell’Alaska (n. 14153); per il rilancio delle politiche energetiche nazionali – una vera e propria emergenza – contro le ideologie ambientaliste (nn. 14154 e 14156); per il ritiro degli Usa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra le principali responsabili dell’emergenza Covid e di tutte le sue nefaste conseguenze (n. 14155); per l’equiparazione dei cartelli della droga a organizzazioni terroristiche globali, con tutti gli effetti securitari e giuridici del caso (n.14157); per l’istituzione del DOGE, il Dipartimento «presidenziale» dell’efficienza governativa, poi informalmente affidato alla guida di Elon Musk (n. 14158); per la protezione del popolo americano contro l’«invasione» degli immigrati illegali, divenuta particolarmente intensa durante la precedente amministrazione democratica (n. 14159); per la difesa del significato e dei valori della cittadinanza americana (n. 14160); per la protezione degli Stati Uniti contro i terroristi stranieri e altre minacce alla sicurezza nazionale e alla sicurezza pubblica attraverso politiche stringenti di controllo di chi entra o intende entrare nel paese (n. 14161); per la subordinazione degli accordi internazionali sull’ambiente agli interessi economici e di crescita degli Stati Uniti, con tanto di ritiro dagli Accordi di Parigi (n. 14162); per la ridefinizione delle politiche e dei programmi di ammissione dei rifugiati (n. 14163); per il ripristino della pena di morte al fine di proteggere la sicurezza pubblica (n. 14164); per la messa in sicurezza dei confini nazionali contro l’invasione degli «stranieri illegali», migranti, potenziali terroristi, spie straniere, membri di cartelli, gang, criminali internazionali, ricorrendo a ogni strumento necessario, a partire dalla costruzione di vere e proprie barriere fisiche (n. 14165); per la difesa delle donne dagli estremismi dell’ideologia di genere attraverso il ripristino della «verità biologica» e il riconoscimento che esistono soltanto due «sessi»: il maschile e il femminile (n. 14168); per la revisione dei programmi di cooperazione internazionale e la rivalutazione degli aiuti ai paesi stranieri, che spesso finiscono per beneficiare Stati e forze ostili (n. 14169); per il ripristino del «merito» nei programmi e nelle politiche di assunzione del personale federale (n. 14170). L’ultimo executive order di quel primo frenetico giorno, il n. 14172 ordinava di «ripristinare i nomi che onorano la grandezza americana». È in questo EO che compare, tra le altre cose, l’ordine di «ribattezzare ufficialmente il Golfo del Messico Golfo d’America».

Il 20 gennaio ha così offerto un assaggio molto istruttivo della postura e delle politiche muscolari della seconda presidenza Trump. I successivi 99 giorni (e quelli seguenti sino a oggi) non sono stati molti diversi. Al netto di un calo fisiologico del numero quotidiano di ordini esecutivi, essi dovevano ampiamente confermare lo stile e le intenzioni del presidente. Con effetti prepotenti negli Stati Uniti e nel mondo intero. 

Per farne un bilancio, selezioneremo alcuni degli ambiti più rilevanti delle politiche presidenziali. Ci concentreremo dapprima sulla politica interna e poi sulla politica estera, ben consapevoli che, soprattutto nel caso degli Usa, i due ambiti non sono sempre del tutto distinguibili. In ultimo, prenderemo in esame in modo più dettagliato la spettacolare «guerra dei dazi» ingaggiata da Trump contro il mondo intero (in particolare la Cina) e le conseguenze che essa ha prodotto. Anche se alla fine è in gran parte rientrata (almeno per il momento), essa ha costituito senz’altro la più clamorosa delle sfide lanciate dal presidente nei cento giorni.

I primi cento giorni di Trump negli Stati Uniti

Immigrazione e sicurezza

Una delle principali preoccupazioni della seconda presidenza Trump durante i 100 giorni è stata quella della lotta all’immigrazione irregolare, considerata come una minaccia mortale per la sicurezza degli Stati Uniti. Essa viene evocata più volte già negli EO del 20 gennaio, in particolare nel già citato n. 14159, dove è assimilata a una vera e propria «invasione» da cui è necessario «proteggere il popolo americano». Ampiamente tollerati se non addirittura favoriti dalle amministrazioni democratiche – si legge nel testo – questi flussi migratori avrebbero portato «milioni di stranieri illegali» nel paese. Molti di questi illegal aliens avrebbero commesso «crimini vili ed efferati contro innocenti cittadini americani». Molti si sarebbero dedicati ad attività ostili quali «lo spionaggio, lo spionaggio economico e il terrorismo». Tutti, poi, avrebbero «abusato della generosità del popolo americano», gravando con la loro presenza sui contribuenti per «miliardi di dollari a livello federale, statale e locale». 

A partire da queste premesse – comuni peraltro a tutti i movimenti populisti europei – Trump ordinava l’applicazione integrale delle leggi sull’immigrazione: una drastica stretta sui controlli; la revoca di alcuni programmi governativi troppo «tolleranti» in materia di inclusione e integrazione dei nuovi americani; un controllo massiccio delle frontiere e degli ingressi da realizzarsi anche attraverso un rilevante rafforzamento e coordinamento delle forze dell’ordine federali, statali e locali; lo smantellamento dei cartelli criminali, delle gang straniere e delle reti transfrontaliere di contrabbando e traffico di essere umani. Egli ordinava altresì di procedere su larga scala, con la collaborazione degli Stati, all’identificazione degli stranieri illegali non registrati e alla loro eventuale espulsione e/o detenzione e di favorire (anche con incentivi) la loro autoespulsione. Minacciava, ancora, di punire i paesi stranieri recalcitranti ad accogliere i propri migranti e le stesse «giurisdizioni santuario», vale a dire quelle città, contee e Stati americani che intralciassero in qualsiasi modo l’applicazione della legge: esse non avrebbero più avuto accesso ai fondi federali e sarebbero state chiamate in giudizio (un punto, questo, rafforzato con l’EO n. 14287). 

È sostanzialmente lungo queste linee – ulteriormente perfezionate attraverso la revisione dei programmi di ammissione dei rifugiati (EO n. 14163) e drastiche politiche di protezione dei confini (in particolare quello con il Messico) attraverso barriere fisiche e l’aumento del personale addetto al loro controllo (EO n. 14165 e n. 14194) – che l’amministrazione ha gestito l’«emergenza» immigrazione illegale. Sono così aumentate rispetto alle amministrazioni precedenti (anche se non in modo così straordinario) le cosiddette «deportazioni», e cioè l’espulsione forzata degli stranieri irregolari verso le più svariate destinazioni, soprattutto l’America latina. Si calcola che nei primi cento giorni esse abbiano raggiunto e poi superato la cifra di 270.000 espulsi. In diversi casi, le deportazioni hanno assunto forme particolarmente spettacolari. Così, ad esempio, nel caso dell’espulsione collettiva di quasi duecentoquaranta migranti venezuelani sospettati di appartenere alla gang Tren de Aragua, avvenuta il 14 marzo, quando Trump giunse a invocare addirittura l’Alien Enemies Act del 1798, il diritto di guerra. Questo caso, come molti altri, ha sollevato accese polemiche e reazioni anche sul piano giudiziario, giungendo sino alla Corte Suprema, che ha prima bloccato e poi sbloccato la deportazione dei venezuelani, riconoscendo però che ai «deportati» deve essere concessa almeno un’udienza in tribunale. Il 16 maggio, la stessa Corte suprema ha bloccato almeno temporaneamente la possibilità per il presidente di ricorrere al diritto di guerra.

La cittadinanza e lo ius soli

La stretta sull’immigrazione irregolare si è accompagnata anche a uno degli executive order più controversi e contestati di Trump: quello relativo alla «difesa del significato e dei valori della cittadinanza americana», un «immenso privilegio» da concedersi con molte cautele (n. 14160). Con esso veniva di fatto cancellato o quanto meno fortemente limitato il cosiddetto «ius soli», fissato fin dal 1868 nel Quattordicesimo Emendamento della Costituzione, il quale recita che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione sono cittadini degli Stati Uniti e dello Stato in cui esse risiedono». L’EO stabiliva che, a partire da 30 giorni dalla data della sua registrazione, i nuovi nati da madri presenti illegalmente negli Usa o con visto temporaneo e da padri che non sono né cittadini americani e nemmeno residenti permanenti – i figli, dunque, di genitori «non soggetti alla giurisdizione» statunitense – non avrebbero più ottenuto automaticamente la cittadinanza. Il provvedimento colpiva soprattutto le comunità di immigrati e i rifugiati richiedenti asilo, ma anche le famiglie LGBTQ+ per il suo esplicito riferimento al padre e alla madre biologici. Dopo aver suscitato una tempesta di polemiche da parte di molti Stati, di organizzazioni per i diritti civili e di comunità di immigrati, esso è stato impugnato da diverse corti federali, bloccato e deferito alla Corte Suprema, che dovrà esprimersi in materia. Semplicemente incredibile, per contro, l’ipotesi – ventilata tra marzo e aprile – di mettere in vendita per cinque milioni di dollari permessi di soggiorno permanenti e, con essi, la prospettiva della cittadinanza.

I programmi DEI

Lo scontro frontale con svariate organizzazioni per i diritti civili, con la comunità LGBTQ+, con i paladini della giustizia razziale e con molte istituzioni scolastiche e accademiche è stato un altro cruciale Leitmotiv dei cento giorni. È su questo terreno che Trump ha dato prova di tutta la sua ostilità nei confronti del politically correct, dell’ideologia gender, delle teorie critiche della razza e più in generale della cultura woke. Uno dei suoi primissimi atti (l’EO n. 14151 del 20 gennaio), infatti, è stato lo smantellamento dei cosiddetti programmi «DEI» (Diversità, Equità, Inclusione) del governo Biden: quei programmi, cioè, orientati a garantire un trattamento equo e inclusivo ai gruppi in vario modo svantaggiati per ragioni legate alla razza, all’etnia, alla religione, al genere, all’orientamento sessuale, allo status socioeconomico, etc. Tali programmi, secondo quanto si legge nell’EO sopra citato, imponevano una sorta di discriminazione inversa, «illegale e immorale» che stava investendo tutti gli aspetti del governo federale e non solo, tra l’altro con costi enormi per i contribuenti. A un simile scandalo si doveva porre fine – come è detto nell’EO n. 14173 del 21 gennaio – «ripristinando le opportunità basate sul merito» e abolendo ogni forma di «spoils system basata sull’identità» invece che sull’eccellenza e sul duro lavoro. Questa regola doveva valere per tutti i dipartimenti e le agenzie governative. Anche il settore privato, tuttavia, andava concretamente «incoraggiato» a operare in questo senso.

L’ideologia gender

In questo quadro più generale, Trump si è mosso con speciale accanimento contro i diritti delle persone transgender. Con l’EO 14168, ad esempio, egli ha imposto di «ripristinare la verità biologica» contro gli estremismi dell’«ideologia di genere», che danneggiano le donne privandole della loro dignità, benessere e sicurezza nei posti di lavoro e nelle loro attività. «La cancellazione del sesso nella lingua e nella politica – vi si legge – ha un impatto corrosivo non solo sulle donne, ma sulla validità dell’intero sistema americano». L’«immutabile realtà biologica del sesso» non poteva essere sostituita da «un senso interno, fluido e soggettivo di sé slegato dai fatti biologici». In questo modo – continuava l’EO – si trasformavano leggi e politiche progettate per proteggere le opportunità basate sul sesso in leggi e politiche che le minano, sostituendo diritti e valori giuridici consolidati e apprezzati con un concetto sociale vago e basato sull’identità. Da qui, l’ordine di «riconoscere due sessi, maschio e femmina» e di contrastare «l’ideologia di genere». L’EO ordinava alle agenzie governative di procedere a una pulizia del linguaggio, a eliminare qualsiasi riferimento al «genere», a non erogare fondi federali in favore delle ideologie di genere, a garantire la privacy negli spazi intimi maschili e femminili, a impedire che i maschi siano detenuti nelle prigioni femminili, a non indicare nei passaporti il genere ma il sesso, etc. Con successivi ordini esecutivi, Trump ha vietato alle persone di transgender di servire nelle forze armate statunitensi, assimilando la disforia di genere alla malattia mentale (n. 14183) e di partecipare agli sport femminili (n. 14201). Più in generale, con l’EO 14190, ha vietato alle scuole pubbliche primarie e secondarie che ricevono fondi federali di insegnare o promuovere dottrine legate all’identità di genere e di supportare la transizione di genere di studenti minorenni.

La teoria critica della razza

In quello stesso executive order veniva presa di mira, sempre in riferimento alle scuole primarie e secondarie, un’altra «dottrina radicale» di grande successo anche nelle università americane e nella cultura liberal: la teoria critica della razza. Attraverso vere e proprie forme di indottrinamento (sottratte oltretutto alla supervisione dei genitori) e una rilettura falsa e tendenziosa della storia americana – secondo l’EO – quella «teoria» stava minando l’amor di patria, l’unità nazionale e i valori americani. Essa, infatti, stava introducendo nuove e pericolose forme di discriminazione, stava spingendo i bambini a odiare il proprio paese e stava schiacciando i bianchi sotto un insuperabile senso di colpa. Per contrastare tali derive, Trump ordinava di mettere fine a queste politiche di indottrinamento e di promuovere «l’educazione patriottica». Egli ristabilì anche la «Commissione 1776» in vista delle celebrazioni del duecentocinquantesimo anniversario della nascita degli Usa. L’aveva già creata nel suo primo mandato, nel 2020, in risposta al «1619 Project», promosso dal «New York Times Magazine» nel 2019, che proponeva di rileggere l’intera storia americana attraverso il filtro della schiavitù e del razzismo, retrodatandone l’inizio per l’appunto dal 1776 al 1619, quando giunsero nel paese i primi schiavi africani. Da allora, per i promotori del 1619 Project, il «privilegio bianco» e il «razzismo sistemico» avrebbero impresso il loro marchio indelebile sulle istituzioni, sulle leggi, sulle strutture economico-sociali e sulla stessa presunta «democrazia» del paese. Una assurda follia per Trump. Sciolta da Biden nel primo giorno del suo mandato, il 20 gennaio 2021, la rinata Commissione 1776 doveva ristabilire la «verità» storica smontando queste tesi antipatriottiche.

Il Green New Deal e l’emergenza climatica

Un’altra «ideologia» che Trump ha preso frontalmente di mira nei suoi primi cento giorni è quella dell’emergenza ambientale e climatica e della transizione ecologica. Anche in questo caso, il presidente ha voluto mostrare fin dall’inizio un netto cambio di passo rispetto all’amministrazione Biden, entrando in rotta di collisione non soltanto con i movimenti ambientalisti e per la giustizia climatica degli Stati Uniti e di tutto il mondo, ma anche con le politiche green europee. Conditi da un negazionismo climatico sarcastico e irridente, i suoi provvedimenti in materia sono stati fin dall’inizio inequivocabili, a partire dal ritiro degli Usa dagli accordi internazionali sul clima e dagli impegni presi per finanziare iniziative globali per la transizione ecologica: un ritiro annunciato con l’EO n. 14162 del 20 gennaio in base al solito principio dell’«America First». Poco prima, quello stesso giorno, Trump aveva emesso gli EO 14154 e 14156: «Liberare l’energia americana» e «Dichiarare un’emergenza energetica nazionale». Il primo metteva sotto accusa i «regolamenti onerosi e ideologicamente motivati» che avevano impedito di sfruttare appieno la grande abbondanza di energia e risorse naturali presente sulle terre e sulle acque federali. Si invocavano dunque esplorazioni e trivellazioni – «Drill baby, drill», aveva detto il presidente nel suo discorso di insediamento – al fine di ridurre i costi dell’energia per gli americani, creare posti di lavoro e fare degli Usa il «leader energetico globale del prossimo futuro». Accanto a molti altri interventi, si ordinava anche di rimuovere tutte quelle barriere normative che sfavorivano l’accesso degli americani ai veicoli a motore rispetto a quelli elettrici e che limitavano la vendita di automobili a benzina. In sostanza, si smantellava qualsiasi progetto di Green New Deal in nome della prosperità e della stessa sicurezza del paese. Un tema, questo della sicurezza, ulteriormente messo in evidenza nell’EO 14156. In esso Trump affermava che «una fornitura interna di energia accessibile e affidabile è un requisito fondamentale per la sicurezza nazionale». La non autosufficienza energetica, infatti, non metteva a rischio soltanto i redditi e i posti di lavoro degli americani, ma anche la stessa capacità del paese di difendersi e isolarsi da attori stranieri ostili. Per questo era necessario dichiarare una vera e propria «emergenza energetica nazionale». Da qui, tutte le azioni conseguenti dell’amministrazione Trump.  Tra queste, mi limito a ricordare i provvedimenti sullo sfruttamento delle risorse energetiche e naturali in Alaska, con particolare riferimento al gas naturale (in verità già fissato in uno dei primi EO, il n. 14153); la sospensione temporanea di molti programmi di sviluppo dell’energia eolica offshore (indicati in un Memorandum sempre del 20 gennaio); l’annuncio della revoca di alcuni standard di efficienza energetica considerati eccessivamente onerosi; e, ancora, l’EO 14260 dell’8 aprile, con il quale venivano messe nel mirino le politiche climatiche dei singoli Stati (governati per lo più dai democratici) non allineate con quelle del governo federale.

Lo Stato profondo

Per completare il quadro dei «cento giorni in America» (al netto di molti altri dettagli), si deve ancora brevemente citare la battaglia senza esclusione di colpi che Trump ha intrapreso contro il cosiddetto deep state e poi contro alcune celebratissime istituzioni universitarie americane, note in tutto il mondo e frequentate da moltissimi studenti internazionali. Le linee di fondo della prima battaglia sono state fissate nel già citato EO 14147, il primo della raffica di ordini esecutivi del 20 gennaio. Esso imponeva uno screening completo di tutti i dipartimenti e di tutte le agenzie federali – dal Dipartimento di giustizia alla Fbi – per identificare i soggetti considerati politicizzati od ostili rispetto all’amministrazione e procedere alle conseguenti «azioni correttive». Un Memorandum dello stesso giorno imponeva poi un «congelamento» delle assunzioni di dipendenti federali da applicarsi a tutto l’ambito del potere esecutivo, fatta esclusione per il personale militare delle forze armate e per le posizioni legate al contrasto dell’immigrazione e alla sicurezza pubblica e nazionale. Si trattava di una misura esplicitamente finalizzata a «ridurre il numero dei dipendenti pubblici federali attraverso il miglioramento dell’efficienza degli uffici». Proprio al fine di rendere più efficiente l’amministrazione federale, l’EO 14158 istituiva l’ormai celebre DOGE, il Dipartimento presidenziale per l’efficienza governativa, informalmente affidato al geniale imprenditore Elon Musk, ben noto in America e nel mondo come spregiudicato «tagliatore di teste» in nome, appunto, dell’efficienza. I poteri di questo particolare Dipartimento presidenziale sono stati poi perfezionati con successivi EO nei mesi successivi, per ridurre ulteriormente il personale federale, introdurre nuovi regolamenti e abbattere i costi dell’amministrazione al fine di «far risparmiare denaro ai contribuenti». I risultati di questa cura dimagrante sono stati molto rilevanti e hanno portato alla soppressione e/o al congelamento di svariate decine di migliaia di posizioni e alla scelta, per molti, di andare in pensione anticipata. Le contestazioni, naturalmente, non si sono fatte attendere. Non soltanto da parte dei sindacati. Non soltanto da parte di molti membri del Congresso, che hanno denunciato a gran voce il tentativo di «politicizzare» l’amministrazione federale in nome dell’«efficienza». E non soltanto da parte di diverse corti di giustizia, che hanno emesso ingiunzioni per bloccare almeno temporaneamente i licenziamenti di massa. Ma anche da funzionari e consiglieri della stessa amministrazione Trump, che hanno sollevato forti perplessità sulle possibilità di effettivo funzionamento di alcune agenzie e dipartimenti federali. Lo stesso ruolo di Elon Musk, che ha mostrato segni di stanchezza per il suo incarico, è stato più volte duramente criticato.

Le Università

Anche le grandi università americane, infine, sono entrate nel mirino di Trump nei cento giorni. In particolare due delle più autorevoli – Harvard e Columbia (ma anche Cornell, Northwestern, Princeton, Brown) – che in effetti ben rappresentano e incarnano il «mondo alla rovescia» di Trump: il mondo delle ideologie di genere, della giustizia razziale, dei programmi di inclusione ed equità, della strenua difesa dei diritti civili e delle identità, dell’ambientalismo radicale. A innescare la miccia dello scontro, in questo caso, sono state soprattutto le grandi e continue manifestazioni di studenti e professori contro Israele, il «genocidio» dei palestinesi e la complicità dei governi degli Stati Uniti – democratici e a maggior ragione repubblicani – con i «sionisti». Tali manifestazioni si sono spesso tradotte in occupazioni degli atenei, dichiarazioni incendiarie, discriminazioni più o meno violente degli studenti e dei professori ebrei, talora tollerate dalle autorità accademiche. Agitando lo spettro – in verità abbastanza concreto – dell’antisemitismo (si veda ad esempio l’EO n. 14188), Trump ha così potuto lanciare una vasta offensiva contro i santuari mondiali della conoscenza, della ricerca e della formazione. Ha ripetutamente minacciato e poi effettivamente sospeso sovvenzioni ed esenzioni fiscali federali per centinaia e centinaia di milioni di dollari. Ha fatto revocare i visti di molti studenti stranieri pro-Palestina. Alcuni di essi sono stati persino arrestati per avere espresso le proprie opinioni. Anche in questo caso ovviamente – particolarmente grave perché è in questione la libertà delle istituzioni accademiche – le reazioni non si sono fatte attendere, anche sul piano legale.

Un bilancio

È naturalmente ancora presto per fare bilanci. Di certo, però, i primi cento giorni di Trump negli Stati Uniti hanno restituito l’immagine di un paese spaccato e fortemente polarizzato. Un clima per molti aspetti sovraccarico delle stesse tensioni che erano già esplose il 6 gennaio 2021. 

Diversi i cento giorni nel resto del mondo. Da questa prospettiva l’America si è invece mostrata come una grande potenza arrogante ma in ultima analisi impotente, almeno per ora. Forte con i deboli e debole con i forti.

I primi cento giorni di Trump nel resto del mondo

In campagna elettorale Trump si era presentato come un presidente di «pace». Si era vantato di non aver dato inizio a nessuna guerra nel suo precedente mandato e aveva più volte promesso che avrebbe posto fine in pochi giorni, al massimo in qualche settimana, ai terribili conflitti in corso soprattutto in Ucraina e in Medio Oriente. Α oggi, questa promessa – sicuramente molto azzardata – non è stata mantenuta. In compenso, però, Trump ha scatenato una «guerra» di altro genere, una guerra commerciale ed economica contro il mondo intero, che ha manifestato in poco tempo il suo veleno e la sua pericolosità, mettendo fortemente in dubbio, come rilevano molti sondaggi, la sua popolarità negli stessi Stati Uniti.

Non vale la pena, almeno per il momento, soffermarsi troppo sulle due grandi crisi che hanno scosso la politica mondiale in Ucraina e nel Medio Oriente. In entrambi i casi, infatti, gli scenari sono ancora del tutto aperti a qualsiasi possibile sviluppo. In entrambi i casi, soprattutto, la guerra e violenze di ogni genere hanno continuato a mietere vittime militari e soprattutto civili e a infliggere enormi sofferenze e distruzioni, a fronte di una sostanziale impotenza dell’amministrazione Trump, poco incline a comprendere – da uomo pragmatico del business qual è – l’intensità di quei conflitti che i protagonisti considerano come «esistenziali».

L’Ucraina

Nel caso dell’Ucraina, la strategia di fondo del presidente è emersa in più occasioni in modo molto chiaro: una linea di appeasement con la Russia di Putin per sganciare quel paese dall’abbraccio mortale con la Cina: il principale nemico degli Stati Uniti, la grande potenza emergente che sfida a tutti livelli l’egemonia globale americana, con il rischio di far scattare la cosiddetta «trappola di Tucidide». E cioè la guerra tra la novella Sparta (gli Usa) e la novella Atene (la Cina).

A giudicare da molti indizi, questa strategia non sta funzionando. Lo ha mostrato da ultimo la recente visita ufficiale di Xi Jinping in Russia (7-10 maggio) in occasione delle celebrazioni del Giorno della Vittoria dei sovietici sulla Germania nazista: una visita che è stata l’occasione per la firma di numerosi accordi di cooperazione in vari ambiti strategici tra Mosca e Pechino. In compenso, però, sull’altare di questa strategia sono stati sacrificati per un verso il pieno sostegno militare e finanziario americano all’Ucraina, che Biden aveva garantito senza riserve (anche se con molti limiti e ritardi), e per un altro verso il rapporto tra gli Usa, i paesi europei, l’Ue e la stessa Nato. 

Nei confronti dell’Ucraina e di Volodymyr Zelensky Trump è stato a dir poco brutale. In un drammatico incontro alla Casa Bianca il 28 febbraio, lo ha accusato davanti alle telecamere (e dunque in mondovisione) di essere in ampia misura responsabile del conflitto, di avere sulla coscienza milioni di vite umane, di giocare con la terza guerra mondiale e di non avere rispetto per l’America e gli sforzi di mediazione della sua amministrazione. Gli ha più volte ribadito che per giungere almeno a una tregua e porre fine alla guerra sarà necessario che l’Ucraina faccia ampie concessioni territoriali alla Russia, soprattutto in Crimea. Pena la perdita dell’intero paese. Ha poi vincolato il sostegno americano a un accordo sulle risorse minerarie ucraine, in particolare sulle «terre rare», che dopo lo scontro del 28 febbraio è stato poi effettivamente firmato il 30 aprile a seguito di complesse trattative. 

Trump è stato per contro assai più conciliante con Putin. A febbraio ha parlato direttamente e a lungo con il leader russo, sia pure solo telefonicamente. Ha poi inviato il suo segretario di Stato Marco Rubio a un vertice bilaterale con la delegazione russa guidata da Sergey Lavrov che si è tenuto in Arabia Saudita il 18 febbraio. Un vertice che ha suscitato un’ondata di polemiche, dato che ad esso non sono stati invitati rappresentanti né ucraini e nemmeno europei. Si è poi recentemente reso disponibile per i colloqui di pace che si stanno svolgendo proprio in questi giorni (16 maggio) a Istanbul con la mediazione di Erdogan e che avrebbero dovuto mettere attorno a un tavolo Zelensky e Putin e (forse lo stesso Trump). A tali colloqui, però, Putin si è rifiutato di partecipare con l’argomento – più volte ribadito – che Zelensky non sarebbe il legittimo rappresentante del popolo ucraino. Lo stesso Zelensky, giunto il 15 maggio a Istanbul, se ne è andato. E Trump non si è fatto alla fine vedere, cominciando a maturare qualche serio dubbio sulla reale volontà di pace della Russia. Il vertice, in ogni caso, ha riunito per la prima volta da tre anni le delegazioni dei due paesi in conflitto, ma si è concluso – pare – con un nulla di fatto (o quasi) per le richieste «inaccettabili» di Mosca. La guerra, dunque, non accenna a spegnersi, con nuovi spaventosi spargimenti di sangue.

Il Medio Oriente

In parte diversa la situazione in Medio Oriente. In questo caso, nei primi cento giorni, Trump ha subito ribadito il suo appoggio incondizionato a Israele e a Netanyahu, minacciando di «scatenare l’inferno» contro Hamas sulla questione degli ostaggi. Nel frattempo, negli ultimi giorni del suo mandato, Biden si era fatto promotore con Qatar ed Egitto di un cessate fuoco finalizzato a porre fine al conflitto e alla liberazione degli ostaggi. La tregua è iniziata il 19 gennaio, il giorno prima dell’insediamento di Trump, ed è durata fino al 18 marzo, portando in effetti allo scambio reciproco di molti ostaggi israeliani (molti ma non tutti) e di un gran numero di prigionieri palestinesi. Poi però, per le ripetute violazioni reciproche del cessate il fuoco (e anche per la terribile e umiliante spettacolarità che Hamas ha impresso alla liberazione degli ostaggi), le ostilità sono riprese ad altissima intensità con attacchi aerei su Gaza, il blocco israeliano degli aiuti umanitari, la guerra sul terreno, centinaia di morti e un nuovo massiccio esodo dei palestinesi. Negli stessi giorni, poco prima che terminasse la tregua tra israeliani e palestinesi, Trump ha ordinato a marzo una massiccia offensiva militare contro le milizie Houthi nello Yemen e si è lanciato in una serie di dichiarazioni molto controverse e talora sorprendenti. In particolare, ha ventilato (fin da febbraio) l’ipotesi di un’occupazione americana della Striscia di Gaza, dell’evacuazione dei suoi abitanti nei paesi vicini e della sua completa ricostruzione, al fine di trasformare quel disgraziato territorio in una «Riviera del Medio Oriente», un centro per gli affari e il turismo, e in una «zona di libertà». Secondo dichiarazioni presto smentite dal suo entourage, avrebbe poi affermato di voler riconoscere lo Stato di Palestina. Più promettenti, invece, appaiono a oggi alcuni sviluppi più recenti. Tra questi, il recente vertice di Riyad (13-14 maggio), in cui il presidente – accanto a svariati accordi economici – ha ripreso con l’Arabia Saudita la sua precedente politica degli Accordi di Abramo; la riapertura di contatti con l’Iran per un accordo sul nucleare, che è in corso in questi giorni; e la normalizzazione dei rapporti con la Siria dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad.

Intanto, però, la guerra di Gaza non accenna a fermarsi. Continua anzi con estrema violenza e sembra ormai prossima a un attacco finale di terra da parte israeliana, con la prospettiva dell’occupazione della Striscia.

L’Europa e la Nato

L’insieme di queste politiche, soprattutto in Ucraina, ha avvelenato il clima della politica internazionale, aprendo una crisi di vaste proporzioni nei rapporti tra gli Stati Uniti, i loro tradizionali alleati europei e l’Ue nel suo complesso. Si tratta di una crisi che va molto al di là di quella, già assai profonda, che si era aperta nel 2003 con la seconda guerra del Golfo e l’invasione dell’Iraq durante la presidenza di G.W. Bush. Essa si è manifestata con particolare chiarezza non soltanto sul piano economico e commerciale (la «guerra dei dazi», di cui ci occuperemo tra poco), ma anche sul terreno più propriamente politico e militare. A fare da detonatore è stato il disimpegno crescente degli Usa dalla guerra in Ucraina, la loro scelta di abbandonare i tradizionali impegni multilaterali e la politica di appeasement con Putin, duramente respinta dalla maggior parte dei paesi europei, schierati invece dalla parte di Zelensky. Le tensioni che ne sono derivate meriterebbero un articolo a parte. Qui è sufficiente ricordare che esse si sono riverberate sulla stessa Nato. Trump e il suo segretario di Stato Marco Rubio hanno ruvidamente invitato i membri europei dell’Alleanza a innalzare le spese militari al 5% del Pil – ben oltre, dunque, il già disatteso 2% – minacciando in caso contrario il disimpegno degli Usa da qualsiasi obbligo di difesa dell’Europa in base a quanto previsto dall’art. 5. Il che ha prodotto due effetti: da un lato, una profonda incrinatura dei rapporti transatlantici e, dall’altro, la spinta da parte europea a mettere davvero in campo (pur tra molti limiti) il grande progetto della difesa comune. Il risultato, visto dalla prospettiva di Washington (ma non di Trump), non è esaltante: è il crescente isolamento degli Stati Uniti sul terreno internazionale. A furia di perseguire con arroganza le parole d’ordine di «America First», essi rischiano di rimanere una «superpotenza solitaria» in un mondo di grandi potenze ostili che prima o poi – come previsto da molti – potrebbero dare vita a una pericolosa «coalizione controbilanciante». È questo lo spettacolo che ha offerto, su un diverso terreno, la «guerra dei dazi», che merita di essere seguita un po’ più nel dettaglio, anche perché è con essa che gli Usa hanno cercato di colpire soprattutto, anche se non solo, il loro principale competitor, la Cina.

La guerra dei dazi (e non solo)

Già robustamente utilizzati come strumenti di pressione economica e politica durante il suo primo mandato, più volte annunciati nella campagna elettorale del 2024, definiti come «la parola più bella del mondo» in diversi comizi, i dazi (tariffs e duties) non compaiono, se non incidentalmente, negli ordini esecutivi del 20 gennaio. Trump li aveva però esplicitamente richiamati nell’Inaugural Address pronunciato quello stesso giorno: «Inizierò immediatamente – disse tra gli applausi – la revisione del nostro sistema commerciale per proteggere i lavoratori e le famiglie americane. Invece di tassare i nostri cittadini per arricchire altri paesi, applicheremo dazi e tasse ai paesi stranieri per arricchire i nostri cittadini». Vi aveva inoltre dedicato, sempre il 20 gennaio, un breve ma importante Memorandum intitolato America First Trade Policy

È tuttavia a partire dal 1° febbraio che i dazi hanno cominciato a irrompere concretamente sulla scena, con tre ordini esecutivi rivolti contro il Canada (n. 14193), il Messico (n. 14194) e la Cina (n. 14195). In questi primi tre EO, l’imposizione di tariffe commerciali sulle importazioni (+25% per Canada e Messico, +10% per la Cina, aumentati in seguito al 20%) fu giustificata in primo luogo come una forma di pressione «politica» sui governi di quei paesi perché si attivassero seriamente al fine di impedire l’ingresso negli Stati Uniti di droghe letali (soprattutto il Fentanyl) e di immigrati clandestini (in special modo dal Messico ma anche dal Canada). 

Poi però, con il passare dei giorni e delle settimane, la politica Usa dei dazi si è trasformata in una convulsa «guerra commerciale ed economica mondiale». Una guerra costellata da una serie infinita di annunci, smentite, ripensamenti, trattative, ritorsioni, minacce, sospensioni e poi ancora aggravamenti e riduzioni delle tariffe. È praticamente impossibile seguirne gli sviluppi in questa sede, anche perché si tratta di una materia tecnica estremamente complicata. Possiamo tuttavia indicarne il momento iniziale, i principi di fondo e i primi risultati, almeno fino a oggi.

Il primo atto della guerra dei dazi in senso in proprio risale al 10 febbraio 2025. Trump annunciò allora che entro un mese sarebbero entrate in vigore tariffe del 25% sull’importazione dell’acciaio e dell’alluminio, materiali fondamentali per molteplici settori industriali e produttivi. I dazi sarebbero stati introdotti nei confronti di tutti i loro partner commerciali, come in effetti avvenne poi il 12 marzo successivo, con svariate ritorsioni (poi parzialmente rientrate) da parte di diversi paesi.

Pochi giorni dopo, tra il 13 e il 21 febbraio, l’amministrazione Trump ha disegnato, attraverso 3 importanti Memorandum, l’architettura e i principi della sua guerra economica e commerciale contro il mondo intero. Essi sono stati poi ulteriormente perfezionati da un importante ordine esecutivo del 2 aprile, un giorno enfaticamente ribattezzato come il «Liberation Day».

Con il primo Memorandum («Reciprocal Trade and Tariffs»), pubblicato il 13 febbraio, il presidente mise nero su bianco il principio della «reciprocità» nel commercio e nei dazi. Per contrastare le «pratiche sleali», estremamente dannose per l’economia e la stessa sicurezza del paese, Trump annunciò di voler fissare con ognuno dei partner commerciali degli Stati Uniti tariffe «eque e reciproche»: una sorta di pareggio dei conti, considerando però non soltanto i dazi imposti direttamente sui prodotti Usa all’estero, ma anche tutta una serie di altre «barriere non tariffarie» (ad es. l’IVA, norme sanitarie, protezioni inadeguate della proprietà intellettuale, etc.) che di fatto danneggiavano l’export americano.

Con il secondo Memorandum («America First Investment Policy»), pubblicato il 21 febbraio, Trump dichiarò di voler rendere l’America «la più grande destinazione del mondo per gli investimenti». Invitò, in altre parole, tutti (o quasi tutti) i paesi stranieri a investire negli Stati Uniti, per invertire la rotta venutasi a creare con le politiche di delocalizzazione all’estero delle grandi aziende americane. Gli investitori stranieri – si legge – troveranno negli Usa le condizioni più favorevoli e al tempo stesso daranno impulso alla crescita economica americana in termini di innovazione e di posti di lavoro. Tutti gli investitori stranieri? Non proprio. Il Memorandum, infatti, metteva al tempo stesso in primo piano la necessità di «proteggere la sicurezza nazionale», in particolare dalle minacce provenienti da potenze ostili come la Repubblica popolare cinese. In questa prospettiva, Trump annunciava severi controlli sugli investimenti Usa in Cina e una stretta molto decisa sugli investimenti cinesi negli Stati Uniti, che stavano da tempo consentendo a quel paese di accedere a tecnologie d’avanguardia e proprietà intellettuale in settori strategici per la sicurezza nazionale. 

Il terzo Memorandum («Defending American Companies and Innovators From Overseas Extortion and Unfair Fines and Penalties»), pubblicato sempre il 21 febbraio, chiamava in causa direttamente l’Europa. Con esso, Trump metteva in guardia diversi paesi europei e l’Ue nel suo complesso dal praticare politiche di «estorsione» nei confronti delle aziende digitali e tecnologiche Usa, esercitando – con regolamenti, tasse, multe e sanzioni – una sorta di autorità extraterritoriale sulle imprese americane. Tali paesi – si legge – «ostacolano il successo di queste aziende appropriandosi di entrate che dovrebbero contribuire al benessere della nostra nazione e non al loro». Come se non bastasse, invitava la sua amministrazione a verificare che tali paesi non esercitassero pressioni o controlli sulle aziende tecnologiche Usa tali da minare la libertà di espressione e l’impegno politico. 

A questi tre Memorandum fece seguito, poco più di un mese dopo, il 2 aprile, un ben più massiccio e decisivo Executive Order, il n. 14257, che metteva in connessione il principio della «reciprocità dei dazi» con «l’elevato e persistente deficit commerciale degli Stati Uniti nel settore dei beni». Un tema da sempre nelle sue corde. Da tali deficit nelle relazioni bilaterali con i singoli paesi derivavano – secondo quanto si legge nell’EO – conseguenze catastrofiche: la perdita di competitività dell’economia americana nel suo complesso, il calo della produttività e della produzione manifatturiera, la compressione dei salari e dei consumi interni, l’indebolimento delle catene di approvvigionamento critiche e molteplici altri effetti nefasti che – viene ribadito più volte – finiscono per incidere anche sulle capacità della difesa nazionale. Si trattava, insomma, di una vera e propria «emergenza nazionale», che rendeva necessaria una riposta molto dura. E cioè i dazi. L’EO stabiliva così un dazio di base del 10% applicato a tutte le importazioni dai partner commerciali, che doveva entrare in vigore il 5 aprile. Ad esso, poi, aggiungeva, dazi specifici per una sessantina di paesi (elencati in un apposito allegato) considerati «sleali» per le barriere tariffarie e non tariffarie che continuavano a imporre all’export americano. Tra questi, per citarne solo alcuni, la Cina (34%), l’Unione Europea (20%), l’India (26%). I dazi più alti erano riservati al Lesotho (50%), alla Cambogia (49%), al Madagascar (47%), al Vietnam (46%) e allo Sri Lanka (44%). Questi dazi specifici, con la clausola di possibili revisioni, dovevano entrare in vigore il 9 aprile.

Trump diede molta enfasi al suo ordine esecutivo. Lo presentò e lo firmò in pubblico nel Rose Gardendella Casa Bianca, definendo il 2 aprile come il «Liberation Day» finalmente sopraggiunto. Le reazioni, tuttavia, non si fecero attendere, soprattutto da parte della Cina, ma anche dell’Ue. Iniziò allora periodo di convulsioni, ritorsioni e turbolente trattative. Il 5 aprile entrarono effettivamente in vigore i dazi del 10% su tutte le importazioni negli Stati Uniti. Al tempo stesso salì la tensione con Pechino, che nel giro di pochi giorni portò i dazi Usa sulla Cina al 145% e quelli cinesi sugli Usa al 125%: di fatto – come è stato detto – a una rottura completa di qualsiasi relazione commerciale tra i due paesi. Contemporaneamente, però, il 9 aprile, nello stesso ordine esecutivo (n. 14266) che incrementava al 145% i dazi con la Cina (125%+l’ulteriore dazio del 20% già imposto per la questione del Fentanyl), Trump sospese fino al 9 luglio le tariffe specifiche per tutti gli altri paesi, in attesa di ulteriori trattative bilaterali con ognuno essi. La tensione con la Cina è rimasta molto alta fino a pochi giorni fa. Si è però stemperata dopo le dure trattative che Washington e Pechino hanno intavolato a Ginevra il 10-11 maggio. Il risultato è stato una riduzione, ancora una volta temporanea (90 giorni), dei dazi Usa sulla Cina dal 145% al 30% e dei dazi cinesi sugli Usa dal 125% al 10%. Una netta de-escalation, che ha messo in campo anche strumenti di consultazione per le questioni commerciali tra i due paesi. 

Una tempesta in un bicchier d’acqua, dunque? Non proprio. A partire soprattutto dal cosiddetto Liberation Day (2 aprile), i mercati finanziari sono entrati in una fase di grande instabilità e turbolenza che si è sì finalmente placata, ma bruciando nel frattempo migliaia di miliardi di dollari nelle borse mondiali, con effetti rilevanti sull’economia reale. Intere filiere produttive in svariati paesi, poi, hanno appreso la lezione e hanno iniziato a guardare altrove. Soprattutto negli Stati Uniti, la guerra dei dazi ha fatto crescere il prezzo di molti beni di consumo e diminuire in modo consistente la disponibilità di svariati prodotti necessari per la vita quotidiana e per le attività produttive. Il rischio che l’inflazione aumenti è assai elevato e lo spettro della recessione è stato da più parti evocato. Come se non bastasse, con le tariffe, il dollaro ha perso valore rispetto ad altre valute internazionali e il costo dello stratosferico debito pubblico americano è andato ulteriormente crescendo. 

Con ogni probabilità, tutti questi elementi hanno imposto a Trump una maggiore ragionevolezza nella guerra dei dazi, se non una vera e propria retromarcia. È ben possibile che la sua strategia altalenante risponda in realtà alla sua mentalità da businessman e a una sorta di culto della trattativa a muso duro. Di fatto però, secondo svariati sondaggi, gli indici della sua popolarità sono decisamente scesi rispetto all’inizio del suo mandato. Il che non è un buon auspicio per le elezioni di mid-term che si svolgeranno nel novembre 2026. Se almeno in un ramo del Congresso dovessero prevalere i democratici, infatti, gli ultimi due anni della sua presidenza potrebbero essere molto difficili.

Quale bilancio?

È estremamente difficile fare il bilancio dei primi cento giorni della presidenza Trump. Gli Stati Uniti sono in breve tempo diventati un paese sempre più diviso, polarizzato, incattivito, poco accogliente. La verticalizzazione del potere in capo al presidente è andata accentuandosi. Molti diritti che hanno fatto degli Usa un modello ineguagliabile di paese libero e tollerante sono stati compressi. La loro stessa prosperità vacilla, grazie anche alla guerra dei dazi. Come abbiamo visto, poi, essi rischiano di rimanere sempre più soli nel resto del mondo. 

C’è da aggiungere, tuttavia, che Trump è un leader estremamente pragmatico, che potrebbe improvvisamente invertire la rotta intrapresa. Anche perché la sua popolarità – come già detto – è in calo. È dunque inutile formulare previsioni, che potrebbero essere smentite nel giro di poco tempo. Si può sicuramente dire, però, che se queste politiche dovessero ostinatamente ricalcare la strada sinora percorsa, gli Stati Uniti potrebbero trovarsi di fronte a un futuro ben poco radioso. Il sogno dell’«età dell’oro» potrebbe trasmutarsi per davvero nell’incubo di una turbolenta «età del caos», che porterebbe il paese in una fase di profondo declino. Un declino che certamente non ci regalerebbe un mondo migliore.