“10/7”. Il conflitto israelo-palestinese

Il 7 ottobre 2023 il conflitto israelo-palestinese si è riacceso nel più feroce e drammatico dei modi. A scatenare l’incendio, in un Medio Oriente già da tempo martoriato da guerre e violenze senza fine, è stata l’ala militare di Hamas con la cosiddetta «Alluvione al-Aqsa»: un’operazione al contempo militare e terroristica che, a partire dalla Striscia di Gaza, ha colpito Israele con una pioggia di razzi e soprattutto con l’infiltrazione di un numero imprecisato di miliziani che hanno massacrato indiscriminatamente oltre mille persone e preso centinaia di ostaggi. A questo vero e proprio «11 settembre» mediorientale Israele ha risposto con l’operazione «Spade di ferro»: il bombardamento massiccio di Gaza e un intervento militare di terra finalizzato a distruggere Hamas, che sta però mietendo un numero enorme di vittime tra la popolazione civile.

Il rischio di un’estensione e di un’internazionalizzazione del conflitto è molto elevato. Accanto alla Striscia di Gaza, epicentro delle violenze e oggi di una spaventosa crisi umanitaria, anche la Cisgiordania, un territorio sottoposto a un controllo misto israeliano e palestinese, è in fermento. Sul confine settentrionale di Israele, inoltre, il gruppo libanese Hezbollah ha già sferrato molteplici attacchi missilistici in territorio israeliano, che rischiano di aprire un nuovo pericolosissimo fronte di guerra. Dietro Hezbollah vi è poi l’Iran, nemico giurato di Israele, che oscilla tra posizioni di cautela e dichiarazioni incendiarie contro il suo storico avversario. Più in generale, la gran parte dei paesi arabi si è apertamente schierata dalla parte della causa dei palestinesi e talora della stessa Hamas. Con Israele sono a loro volta schierati molti paesi occidentali e soprattutto gli Stati Uniti che, pur giocando un importante ruolo di contenimento della violenta risposta israeliana agli attacchi del 7 ottobre, hanno rifornito di armi e strumenti di intelligence il loro tradizionale alleato e inviato due portaerei nel Mediterraneo orientale a scopo di deterrenza. La Cina e la Russia (molto vicina all’Iran ma ancora intrappolata nella guerra in Ucraina) stanno a guardare. L’Unione europea non riesce a far sentire la propria voce. E l’Organizzazione delle Nazioni Unite si è dimostrata del tutto incapace di trovare una soluzione diplomatica al conflitto e capacissima al contrario di amplificarlo nell’opinione pubblica internazionale. Il rischio che la scintilla del 7 ottobre inneschi un conflitto di grandi proporzioni è dunque molto alto.

Quella scintilla, com’è ben noto, non è scoccata dal nulla. Covava da decenni sotto le ceneri dell’irrisolta «questione palestinese», alimentata in modo sconsiderato dagli opposti estremismi della destra israeliana, per lungo tempo al governo del paese, e dei nemici dello Stato ebraico, Hamas in testa, decisi a cancellarlo dalla carta geografica. Qualche progresso nella direzione di una complicata convivenza si stava forse compiendo attraverso il lento e faticoso lavoro della diplomazia internazionale. Il violentissimo attacco del 7 ottobre, con la sua inaudita ferocia, ha tuttavia suscitato una catena di azioni e reazioni che hanno interrotto qualsiasi prospettiva di dialogo tra i contendenti, lasciando il posto all’esplosione della più cieca violenza.

Il dato più preoccupante è che questi sviluppi si stanno svolgendo in un contesto internazionale assai fluido: sullo sfondo di una sempre più evidente e marcata crisi dell’egemonia degli Stati Uniti (criticatissimi anche al loro interno) a fronte dell’ascesa di altri attori internazionali e soprattutto in una cornice di crescente disordine mondiale, particolarmente esplosiva in tre regioni cruciali del pianeta: il Medio Oriente appunto, l’Eurasia (Russia-Ucraina) e ancora l’Asia-Pacifico (Taiwan).

Per comprendere quanto è successo bisogna tenere presente questo sfondo. È tuttavia necessario gettare anche uno sguardo alla storia lunghissima del conflitto israelo-palestinese, che ha sedimentato memorie e odi i quali, tramandati attraverso le generazioni, sono assai difficili da superare.

La storia del conflitto israelo-palestinese precede la stessa fondazione dello Stato di Israele nel 1948. Acute tensioni tra arabi ed ebrei si erano già manifestate negli ultimi decenni dell’XIX secolo, quando molti ebrei, oggetto di pesanti persecuzioni soprattutto nella Russia zarista, iniziarono a migrare in Palestina, che faceva allora parte dell’impero ottomano. Il «sionismo», con Theodor Herzl e il suo Lo Stato ebraico (1896), diede una prospettiva al tempo stesso ideale e concreta all’aspirazione di un «ritorno a Sion» dopo i lunghi secoli della diaspora, producendo un’intensificazione del processo di insediamento di migliaia di ebrei nella «terra dei padri» che doveva continuare per tutta la prima metà del Novecento.

La crisi e poi il crollo dell’impero ottomano all’indomani della Prima guerra mondiale accelerò ulteriormente il processo. Nel 1917, già prima della fine del conflitto, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour aveva promesso agli ebrei una national home in Palestina, dichiarando di condividere il programma sionista di costruzione di un «focolare nazionale ebraico» in quella terra. Fu proprio la Gran Bretagna, dopo la guerra e la dissoluzione dell’impero ottomano, a ottenere dalla Società delle Nazioni il «mandato» sulla Palestina. Sia pure con qualche vincolo, l’immigrazione ebraica andò dunque intensificandosi, al prezzo di tensioni crescenti con le popolazioni arabe locali, più volte sfociate in aperte violenze, ribellioni e azioni terroristiche da entrambe le parti.

La Seconda guerra mondiale alimentò ulteriormente questi processi. Lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista e nell’Europa centro-orientale rese ancora più forte l’aspirazione alla creazione di uno Stato ebraico. Crebbe di conseguenza l’ostilità da parte dei paesi arabi, che nel 1945 diedero vita alla Lega araba. Nel frattempo, mentre gli Stati Uniti (con una forte e influente minoranza ebraica al proprio interno) premevano per togliere qualsiasi vincolo all’ulteriore immigrazione degli ebrei in Palestina, la Gran Bretagna decise di perseguire una politica di disimpegno nella regione e di rimettere la questione – ormai diventata eminentemente «internazionale» – alle Nazioni Unite.

David Ben Gurion proclama l’indipendenza di Israele nel 1948 (fonte: Wikipedia da Israel Ministry of Foreign Affairs)

Con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 l’ONU stabilì la divisione del territorio della Palestina tra le due popolazioni e la creazione di una zona a giurisdizione internazionale nella città di Gerusalemme. Quando la Gran Bretagna, nel maggio del 1948, ritirò dalla regione le proprie truppe, David Ben Gurion, capo di un governo provvisorio ebraico, proclamò il 14 maggio la nascita dello Stato di Israele. La creazione del nuovo Stato – subito riconosciuto dalle due grandi superpotenze, USA e URSS – fu invece condannata come atto unilaterale dai paesi arabi. Ed ebbe inizio, in senso proprio, la lunga vicenda del conflitto israelo-palestinese.

La prima guerra arabo-israeliana ebbe inizio il 15 maggio 1948, il giorno successivo alla proclamazione dello Stato di Israele. Vi parteciparono l’Egitto, la Transgiordania, la Siria, il Libano e l’Iraq, che furono pesantemente sconfitti nel giro di pochi mesi. Israele, dal canto suo, poté consolidare i propri confini andando oltre quanto previsto dal piano di spartizione delle Nazioni Unite.

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Anche il suo status internazionale risultò rafforzato dal riconoscimento della sua esistenza da parte di molti altri Stati e dal suo ingresso nell’ONU nel 1949. Il risultato fu l’ulteriore crescita dell’immigrazione ebraica in Palestina e il drammatico esodo forzato di circa settecentomila palestinesi verso altri paesi, in primo luogo Libano e Giordania: la cosiddetta nakba, rimasta ben viva nella memoria delle generazioni successive.

La seconda guerra arabo-israeliana si consumò nel 1956, nel contesto della «crisi di Suez», scoppiata in seguito alla decisione del governo egiziano – guidato da Nasser – di nazionalizzare il canale di Suez, snodo decisivo dei traffici commerciali tra Oriente e Occidente e di vitale interesse per la Francia e soprattutto la Gran Bretagna. D’accordo con le due potenze europee per un’azione militare congiunta, Israele occupò allora, tra ottobre e novembre di quell’anno, la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza. Seguì l’intervento anglo-francese. Il successo militare dell’operazione si tradusse però in una catastrofe politica. Le pressioni e le minacce degli Stati Uniti e soprattutto dell’Unione Sovietica spinsero infatti le Nazioni Unite a condannare l’invasione. E gli israeliani furono costretti a ritirarsi dai territori occupati. Da allora gli incidenti e gli scontri di frontiera tra arabi e israeliani andarono moltiplicandosi e pochi anni dopo, nel 1964, nacque l’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.

Tre anni più tardi, nel 1967, scoppiò il terzo conflitto arabo-israeliano, la cosiddetta «guerra dei sei giorni», seguita alla decisione egiziana di bloccare il transito delle navi dirette verso Israele attraverso il golfo di Aqaba. La risposta militare israeliana fu immediata e schiacciante e condusse, tra il 5 e il 10 giugno di quell’anno, all’occupazione della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, dell’alta Galilea, del Golan, della penisola del Sinai e di Gerusalemme est, che fu proclamata capitale dello stato ebraico. A nulla servì la condanna delle Nazioni Unite, che spinsero per una soluzione negoziata del conflitto – la restituzione dei territori occupati in cambio del riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi – respinta da entrambe le parti.

Israele avviò allora un processo di colonizzazione dei territori occupati, favorendo l’insediamento di coloni ebraici e facendo crescere lo sfruttamento e la subordinazione economica della popolazione palestinese. Al tempo stesso, anche di fronte al radicalizzarsi dell’OLP, prese a investire enormi risorse in sicurezza e spese militari, legandosi sempre più strettamente agli Stati Uniti.

Il generale Ariel Sharon sul fronte del Sinai (fonte: Wikipedia da The Israel Defense Forces Archive)

È in questo quadro che scoppiò nel 1973 il quarto conflitto arabo-israeliano, la cosiddetta «guerra dello Yom Kippur», dal nome di una delle più importanti festività ebraiche.

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L’attacco fu sferrato a sorpresa dall’Egitto e dalla Siria in quel giorno di festa e trovò in un primo momento impreparate le forze militari e di sicurezza di Israele. Con una efficace controffensiva, tuttavia, gli israeliani riuscirono a respingere gli eserciti nemici e a spingersi sino alla capitale egiziana.

Il presidente USA Jimmy Carter fra Menachem Begin ed Anwar al-Sādāt a Camp David (fonte: Wikipedia)

La guerra in questo caso, grazie anche all’opera di mediazione degli Stati Uniti, pose le premesse per gli importanti accordi di Camp David (1978) e il trattato di pace di Washington tra Israele ed Egitto (1979). Con essi l’Egitto riconobbe finalmente lo Stato di Israele (e fu per questo espulso dalla Lega araba). Israele, dal canto suo, si ritirò dalla penisola del Sinai e consolidò i propri confini con l’Egitto. Per questa politica di pacificazione i due firmatari dell’accordo – il primo ministro israeliano Menahem Begin e il presidente egiziano Anwar Sadat – ottennero nel 1978 il premio Nobel per la pace. Per la stessa ragione, tuttavia, Sadat fu assassinato pochi anni dopo, nel 1981, dai fondamentalisti islamici.

Dopo la guerra dello Yom Kippur, gli accordi di Camp David e il trattato di Washington, le tensioni e le violenze tra israeliani e palestinesi continuarono a crescere d’intensità dentro e fuori i confini di Israele, in diversi casi coinvolgendo altri Stati della regione.

Riprese anzitutto vigore la politica degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, territorio occupato fin dalla «guerra dei sei giorni» del 1967, che suscitò a sua volta le reazioni dei palestinesi in una spirale di crescente violenza. In questo quadro, nel 1982, Israele mise a punto l’operazione «Pace in Galilea» nel Libano meridionale, che fu invaso e occupato. L’obiettivo era disarticolare la minaccia terroristica che trovava alimento nei campi profughi palestinesi situati in quella regione e al tempo stesso colpire l’OLP, che aveva posto il suo quartier generale a Beirut, la capitale del Libano, e che fu quindi costretto a trasferirsi a Tunisi. È in tale contesto che si consumarono, nel settembre di quello stesso anno, i massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila, compiuti sì da milizie cristiane libanesi, ma con il tacito assenso dell’esercito israeliano loro alleato.

Crebbero così l’opposizione interna al governo dominato dalle destre e lo sdegno della comunità internazionale, e Israele fu costretto a ritirarsi dal Libano. Il che, però, avvenne soltanto nel 1985, in una situazione di grave crisi interna, segnata fin dalle elezioni del 1984 dalla formazione di un governo di coalizione tra le destre e i laburisti, alla cui guida si alternarono Shimon Peres (1984-86, leader dei laburisti) e Yitzhak Shamir (1986-1992, leader del Likud). Il primo fu ostacolato dalle destre nel suo tentativo di trovare un qualche accordo di compromesso almeno con i paesi arabi moderati. Il secondo accelerò invece sulla politica degli insediamenti in Cisgiordania e Gaza, inasprendo nel contempo la repressione dei palestinesi.

Seguì quindi, nel 1987, la prima Intifada, una vera e propria rivolta che si protrasse fino al 1993, con scioperi, boicottaggi, violente manifestazioni di piazza che seminarono morte e distruzione generando un clima di odio tra i contendenti. Nel frattempo, però, maturarono spiragli di pace. Nel 1988, dunque ancora durante l’Intifada, Yasser Arafat, leader dell’OLP, si dichiarò disposto a riconoscere l’esistenza di Israele. Il premier israeliano Shamir, dal canto suo, accettò che nei territori occupati si tenessero elezioni al fine di raccogliere il consenso dei palestinesi più moderati, pur continuando con la politica del pugno di ferro nei confronti della «guerra delle pietre».

La storica stretta di mano tra Rabin e Arafat nel 1993 (fonte: Wikipedia da White House.gov)

Dopo la prima guerra del Golfo (1991) – in cui Israele non intervenne per le pressioni degli Stati Uniti, nonostante i bombardamenti iracheni sul suo territorio – la questione israelo-palestinese sembrò avviarsi a una svolta, grazie anche alla mediazione del presidente americano Bill Clinton.

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Nel 1993, infatti, il nuovo governo laburista guidato da Yitzhak Rabin (agli Esteri Shimon Peres) e l’OLP di Arafat siglarono gli accordi di Oslo, negoziati in Norvegia e poi sottoscritti a Washington. In base ad essi fu concessa l’autonomia alla Striscia di Gaza, poi estesa anche a parti della Cisgiordania, e creata l’Autorità Nazionale Palestinese.

Si trattò, tuttavia, di una fragile tregua. Ripresero infatti vigore gli opposti estremismi della destra israeliana e del fondamentalismo islamico. La prima tornò al governo nel 1996, dopo l’assassinio di Rabin per mano di un terrorista ebreo (1995) e un breve governo Peres (1995-1996), che in un clima di crescenti tensioni fece bombardare le milizie Hezbollah in Libano. Il secondo trovò il suo principale punto di riferimento in Hamas, un’organizzazione politico-militare islamista fondata nel 1987, all’epoca della prima Intifada, che scatenò un’ondata di gravi attentati terroristici (anche suicidi) contro gli ebrei, generando in tal modo una sorta di «islamizzazione» della questione palestinese.

È in questo clima che le destre tornarono al potere con Benjamin Netanyahu, orientato allo scontro frontale, il quale impresse una nuova accelerazione agli insediamenti dei coloni nei territori ancora occupati. I laburisti tornarono nuovamente al governo tra il 1999 e il 2001 con Ehud Barak, che tentò di riprendere i negoziati di pace con l’OLP e portò a compimento il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale. Durante il suo mandato, nel 2000, fallì, per il rifiuto di Arafat, il vertice di Camp David, promosso ancora una volta dal presidente Clinton.

Nello stesso anno, soprattutto, ebbe inizio la seconda Intifada, dopo una plateale e provocatoria visita di Ariel Sharon, leader del Likud, circondato da centinaia di poliziotti armati, alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, luogo sacro sia per gli ebrei sia per i musulmani. Da quel momento ebbe inizio una rivolta durata per diversi anni, costellata da continui attentati suicidi contro i civili e violenze da parte soprattutto di Hamas e da brutale repressione e omicidi mirati da parte israeliana.

Una svolta importante ma tutt’altro che definitiva nel conflitto israelo-palestinese si ebbe nel 2005 con la decisione dell’allora capo del governo Ariel Sharon di porre fine all’occupazione della Striscia di Gaza, troppo gravosa per Israele, e di affidarne il governo all’Autorità nazionale palestinese, che governava anche parti della Cisgiordania.

Le elezioni del 2006 indette dall’Autorità Nazionale Palestinese crearono tuttavia nuove e assai complicate fratture. Nella Striscia di Gaza – nel frattempo isolata e blindata su tutti i lati da Israele attraverso barriere, muri e blocchi navali e soggetta poi, dal 2007, a un pesantissimo embargo anche da parte egiziana – vinsero a sorpresa i radicali di Hamas sul partito moderato Fatah, che invece riuscì a prevalere in Cisgiordania.

I due territori palestinesi seguirono da allora due strade in ampia misura diverse. Nel contempo, all’interno della Striscia si accese una vera e propria guerra civile tra i seguaci di Hamas e Fatah, che si concluse con la vittoria dei primi, ottenuta con la forza e mai più sottoposta, fino a oggi, alla prova di nuove elezioni.

Dal «disimpegno» israeliano del 2005, la Striscia di Gaza è rimasta la ferita aperta più bruciante dell’intera «questione israelo-palestinese», che continua a essere avvitata nella contrapposizione tra i due estremismi di Hamas e della destra israeliana, due forze che di fatto si alimentano vicenda, sullo sfondo di un gioco più ampio e complesso in cui si muovono attori regionali e globali in latente conflitto: Iran, Russia, Stati Uniti, per citare solo i principali.

Dopo l’embargo decretato nel 2007, che ha messo in ginocchio una popolazione molto giovane, allo stremo e senza prospettive, gli scontri tra israeliani e palestinesi sono continuati senza sosta. Per anni Hamas e Israele hanno continuato a bombardarsi a vicenda, con migliaia di vittime soprattutto palestinesi e distruzione di interi quartieri nelle città della Striscia. In diversi casi – così tra il 2008 e il 2009 e poi nel 2014 – l’esercito israeliano ha condotto vere e proprie operazioni di guerra entrando nella Striscia con lo scopo di disarticolare e distruggere le basi di Hamas e la vastissima rete di tunnel sotterranei che essa ha costruito nel tempo per nascondersi e per procurarsi armi e altri beni altrimenti inaccessibili a causa dell’embargo.

Tregue, accordi, parziali concessioni non hanno mai posto per davvero fine agli scontri, che hanno investito, nel 2021, la stessa Gerusalemme. In questo quadro, che purtroppo continua ad autoalimentarsi, i tentativi di trovare una soluzione diplomatica più generale a un conflitto che ha ormai – come si è detto – i «capelli bianchi» sono andati o rischiano di andare in fumo e di restare lettera morta. Così gli «accordi di Abramo» (2020), che hanno almeno in parte normalizzato, con la mediazione del presidente americano Donald Trump, i rapporti di Israele con paesi musulmani tradizionalmente ostili, come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, cui si è poi aggiunto il Marocco. E così la prospettiva, molto concreta solo pochi giorni prima del 7 ottobre 2023, di un accordo storico tra Israele e l’Arabia Saudita. Poi però è arrivato quel fatidico 7 ottobre. Tra l’altro – si deve aggiungere – nel bel mezzo di una crisi profonda del governo delle destre guidato da Netanyahu, aspramente contestato all’interno, che forse avrebbe potuto dare una qualche prospettiva al processo di pace.

È stato ripetuto da più parti che quanto è successo il 7 ottobre 2023 costituisce per molti versi qualcosa di analogo al cosiddetto «9/11», vale a dire degli attentati che hanno colpito New York e il Pentagono l’11 settembre 2001. È stato lo stesso Presidente americano Joe Biden a sottolinearlo, quando ha robustamente esortato il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu a «non fare gli stessi errori» – Afghanistan, Iraq – che gli Stati Uniti avevano commesso dopo quei terribili e spettacolari attentati.

Il presidente israeliano Benjamin Netanyahu con il presidente americano Joe Biden in un incontro alla Casa Bianca. (fonte: Wikipedia da White House.gov)

In effetti, a due mesi di distanza dai fatti, quel che si è riuscito a ricostruire di quella orribile e imprevedibile giornata tramite testimonianze, immagini, video – peraltro rimasti in ampia parte inaccessibili al grande pubblico – ci restituisce lo scenario di un altrettanto spettacolare atto di terrore al rallentatore, protrattosi per svariate ore ed evidentemente organizzato da molto tempo fin nei minimi dettagli.

L’attacco di Hamas è iniziato intorno alle 6.30 del mattino con un diluvio di razzi Qassam lanciati contro il territorio di Israele: circa 3.000 in poco meno di mezz’ora, annunciati dal suono cupo delle sirene antiaeree. Il bombardamento massiccio è stato in gran parte neutralizzato da Iron Dome, la «cupola di ferro», un efficace sistema antimissilistico attivo 24 ore su 24 e già sperimentato dagli israeliani fin dal 2010-2011, mai però in una misura così massiccia. Quasi contemporaneamente un numero imprecisato di miliziani di Hamas ha fatto irruzione nei territori israeliani prossimi alla Striscia di Gaza. Alcuni via terra, a bordo di moto, furgoni e pick-up o a piedi, dopo aver sfondato con i bulldozer le odiate barriere di protezione che «murano» la Striscia. Altri dal cielo, con deltaplani e parapendii a motore atterrati in modo spettacolare dall’altra parte delle recinzioni.

È iniziata allora una vera e propria strage di militari ma soprattutto di civili inermi, massacrati casa per casa, kibbutz per kibbutz, check-point per check-point, tra esecuzioni, stupri e violenze di ogni genere contro chiunque: donne, bambini, giovani, anziani, soldati. Particolarmente sconvolgente la sequenza di violenze che si è abbattuta, a pochi passi dal confine della Striscia nel deserto del Neghev, sul Nova Music Festival, un rave party cui stavano partecipando circa tremila giovani, molti dei quali, tra l’altro, attivisti pro-Palestina. La festa si è trasformata improvvisamente in un incubo. Decine di miliziani hanno iniziato a sparare raffiche di mitra sulla folla, a inseguire e poi a uccidere singoli ragazzi e ragazze che, in preda al panico, tentavano di fuggire o di nascondersi tra i cespugli, accanendosi poi sui loro corpi. Alcuni giovani sono stati rapiti, caricati su moto e pick-up e portati nella Striscia esibiti con i corpi nudi o seminudi, non si capisce se vivi o morti, come macabri trofei. Un’esperienza sconvolgente. Anche per i sopravvissuti psicologicamente insuperabile, come hanno mostrato i casi di suicidio registrati a distanza di settimane dall’evento.

La mattanza del rave party e degli insediamenti aggrediti dai terroristi è durata per ore, fino a quando le forze militari e di sicurezza non sono faticosamente riuscite a intervenire e ad arginare almeno in gran parte il massacro. Il bilancio è di circa 1.200 morti, trecento dei quali sono i ragazzi del Nova Music Festival. A questa carneficina (i cui dati sono ancora in aggiornamento) si deve poi aggiungere il rapimento di alcune centinaia di persone – tra cui bambini, donne e anziani – che sono stati portati nella Striscia come ostaggi da gettare sul piatto della complicatissima trattativa che doveva di lì a poco aprirsi di fronte alla più che prevedibile reazione israeliana. La quale è sopraggiunta immediatamente.

L’attacco del 10/7 ha avuto l’effetto – scontato – di consolidare d’un tratto la traballante posizione di Netanyahu, e cioè del più irriducibile nemico di Hamas e più in generale della questione palestinese. La risposta di Israele è stata istantanea e si è tradotta, lo stesso 7 ottobre, in un bombardamento di rappresaglia su Gaza City e nell’avvio dell’operazione «Spade di ferro», finalizzata alla distruzione di Hamas. L’8 ottobre è stato dichiarato ufficialmente lo stato di guerra, che nei primi giorni, accanto a martellanti raid aerei e missilistici, si è tradotto nel «blocco totale» della Striscia, privata dell’energia elettrica ed ermeticamente chiusa a qualsiasi rifornimento di generi alimentari, medicinali, carburante. L’11 ottobre si è formato un nuovo governo di unità nazionale, sempre sotto la guida di Netanyahu. Intanto, altrettanto prevedibilmente, Hamas ha iniziato a minacciare l’uccisione degli ostaggi se Israele non avesse interrotto raid e bombardamenti, aprendo così profonde fratture nell’opinione pubblica israeliana.

L’assedio e i raid dei primi giorni dovevano costituire il preludio dell’attacco di terra, vale a dire della penetrazione delle forze militari israeliane nella Striscia per dare la caccia ai miliziani e soprattutto ai capi di Hamas e per distruggere la rete di tunnel in cui erano collocate le basi dell’organizzazione terroristica e probabilmente gli stessi ostaggi. Un’azione di questo genere, in un contesto assai densamente popolato, prefigurava costi umani enormi per i palestinesi e un difficilissimo contesto di guerriglia urbana, assai pericoloso per le stesse forze militari israeliane.

Nonostante l’opposizione della comunità internazionale, dell’ONU, di molte organizzazioni umanitarie e degli stessi Stati Uniti, che hanno invitato a più riprese il governo israeliano a «non ripetere gli errori» che essi stessi avevano commesso dopo l’11 settembre 2001, Netanyahu e i suoi ministri sono andati dritti per la loro strada. Hanno quindi ordinato ai palestinesi di evacuare la parte settentrionale della Striscia, compresa la stessa Gaza City, e di spostarsi verso sud, a ridosso con la frontiera con l’Egitto (a sua volta ermeticamente chiusa), per poter continuare a bombardare. L’ordine di evacuazione ha richiamato alla memoria di molti palestinesi il ricordo della nakba del 1948-1949. E i bombardamenti sono proseguiti, mietendo un gran numero di vittime civili.

Il 27 ottobre l’ONU ha infine approvato a maggioranza una risoluzione per chiedere una tregua umanitaria nella Striscia, con il voto contrario di 14 paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, e 44 astenuti. Il giorno successivo, tuttavia, ha preso avvio l’invasione di terra, che è proseguita tra incidenti di ogni tipo. Nel frattempo, in un quadro di crescente isolamento internazionale di Israele, sono andate crescendo le tensioni in Cisgiordania. Iran e Hezbollah, pur negando qualsiasi coinvolgimento negli attentati del 7 ottobre, si sono schierati dalla parte di Hamas. Anche la Turchia è scesa in campo contro Israele e così molti paesi arabi che hanno chiesto al governo israeliano di cessare le ostilità. Gli stessi Stati Uniti, che pure hanno schierato navi e sottomarini nella regione a scopo di deterrenza nei confronti di altri attori regionali (soprattutto l’Iran), si sono pronunciati contro lo spostamento forzato dei palestinesi da Gaza e contro qualsiasi ipotesi di rioccupazione della Striscia da parte di Israele, chiedendo anch’essi un cessate il fuoco. L’opinione pubblica internazionale si è ampiamente mossa contro la guerra di Gaza, in vari casi assumendo toni fortemente antisionisti (talora antisemiti) e antiamericani.

Per qualche giorno – circa una settimana – la tregua è arrivata, anche per la pressione di coloro che premevano per avviare trattative sugli ostaggi nelle mani di Hamas. Alcuni di essi sono stati effettivamente rilasciati, in cambio della liberazione di palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane. Poi però, in seguito anche a un attentato terroristico rivendicato da Hamas a Gerusalemme, l’operazione di terra, accompagnata da bombardamenti, è ripresa ed è tuttora in corso (8 dicembre).

Il bilancio, a oggi, è disastroso. La Striscia di Gaza è in una condizione di vera e propria catastrofe umanitaria. Le vittime, per quanto è possibile contarle, sono migliaia. I dati a oggi più recenti del Ministero della Sanità di Gaza calcolano circa 17.000 morti palestinesi. Ma si tratta di cifre tutte da verificare e soprattutto ancora provvisorie in un conflitto la cui conclusione non appare certo ancora vicina.

È francamente difficile immaginare come possa evolvere in futuro questa ennesima e gravissima crisi internazionale. Tre ordini di difficoltà rendono piuttosto cupa qualsiasi ragionevole previsione.

La prima riguarda lo scenario internazionale complessivo, che è diventato – detto in estrema sintesi – particolarmente conflittuale e si trova in una fase di riassestamento a causa dell’evidente ridimensionamento della potenza globale degli Stati Uniti e dell’ascesa di altri importanti attori globali e regionali. In questo quadro, ogni conflitto in qualsiasi parte del mondo diventa il banco di prova di tensioni e bracci di ferro che non facilitano la ricerca di soluzioni di compromesso e anzi, spesso, complicano le situazioni.

La seconda difficoltà riguarda la leadership dei due contendenti, che in Israele da ormai diversi anni non sembra essere all’altezza e in Palestina semplicemente non esiste. L’Autorità nazionale palestinese, con il suo capo Abu Mazen, è del tutto impotente e inascoltata. Con chi dovrebbe «trattare» un’ipotetica classe dirigente israeliana, che pure non si vede all’orizzonte? Con i terroristi di Hamas?

La terza difficoltà, infine, discende dal fatto che il conflitto israelo-palestinese ha ormai alle spalle una storia troppo lunga. Una storia che si è costruita per oltre un secolo sull’odio generato da tragedie e lutti continui e sulla reciproca sfiducia. I fatti del 7 ottobre e quello che ne è seguito non hanno fatto altro che confermarla. È dunque facile immaginare che i fantasmi dei morti continueranno ad alimentare in futuro un potente desiderio di vendetta e di guerra, che solo leadership adeguate e una comunità internazionale coesa potrebbero in qualche misura contenere.


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