Golden Age? Il ritorno di Trump alla Casa Bianca

Dal 20 gennaio 2025 il repubblicano Donald Trump è per la seconda volta presidente degli Stati Uniti d’America. Aveva già ricoperto quella carica – decisiva per i destini del suo paese e del mondo intero – dal 2017 al 2021, come 45° presidente degli USA. Poi, però, era stato sconfitto alle elezioni del novembre 2020 dal democratico Joe Biden, in carica dal 20 gennaio 2021 al 20 gennaio del 2025. La sua reazione fu allora estremamente scomposta. Contestò ripetutamente i risultati delle elezioni e poi chiamò a raccolta i suoi seguaci con discorsi incendiari e sediziosi. Ne seguì il 6 gennaio 2021 – il giorno in cui il Congresso doveva validare i risultati dell’Election Day – il famigerato «assalto al Campidoglio», uno dei momenti più bui della storia della democrazia americana (ne abbiamo già parlato in un precedente articolo), che costò al quasi ex presidente una procedura di impeachment (finita poi nel nulla) per incitamento all’insurrezione. Nei giorni successivi Trump si rifiutò di partecipare alla cerimonia di insediamento del suo successore. Un clamoroso gesto di rottura che soltanto altri quattro ex presidenti sconfitti avevano fatto in passato, l’ultima volta oltre un secolo e mezzo fa: John Adams con Thomas Jefferson nel 1801, John Quincy Adams con Andrew Jackson nel 1829, Martin Van Buren con William Henry Harrison nel 1841 e Andrew Johnson con Ulysses S. Grant nel 1869.

Durante i 4 anni della presidenza Biden, Trump non ha mai smesso di criticare aspramente l’operato del governo democratico in politica interna e in politica estera e di polarizzare l’opinione pubblica americana. Fin dal principio, inoltre, egli non ha mai nascosto la sua intenzione di ritentare la corsa alla Casa Bianca, nonostante i molti procedimenti giudiziari in cui, per le più diverse ragioni, è stato chiamato in causa come imputato.

L’annuncio ufficiale della sua candidatura è però arrivato soltanto il 15 novembre 2022 dalla sua residenza privata di Mar-a-Lago, in Florida, di fronte a una piccola folla di fans, donatori e giornalisti. Risuonò allora la già ben nota promessa di rendere nuovamente l’America «grande e gloriosa» – la martellante retorica MAGA («Make America Great Again») – che egli continuò a ripetere incessantemente fino alle elezioni del 2024 e poi nello stesso discorso di insediamento alla presidenza.

Nel frattempo, durante gli anni dell’amministrazione Biden, gli Stati Uniti avevano dovuto confrontarsi con difficoltà crescenti. All’interno, la seconda e assai virulenta ondata del Covid, la recessione economica, l’emergenza immigrazione, l’esplosione di sempre più acute tensioni sociali e sui diritti civili. All’estero, l’umiliante ritiro dall’Afghanistan nell’agosto 2021, l’inizio della guerra russo-ucraina nel febbraio 2022 e, ancora, la riemersione e poi l’allargamento all’intero Medio Oriente del conflitto israelo-palestinese all’indomani della carneficina perpetrata da Hamas il 7 ottobre 2023. Il tutto, sullo sfondo di una crescente e sempre più aperta competizione con la Cina e di una significativa perdita di consensi nella comunità internazionale.

È in questo quadro di crisi – aggravato dalle sempre più precarie condizioni di salute di Biden – che sono maturate le condizioni del ritorno di Trump alla Casa Bianca come 47° presidente USA. Anche in questo caso un fatto inedito. Nella storia americana, infatti, soltanto un altro presidente – Grover Cleveland – aveva ricoperto due mandati non consecutivi: il primo nel 1885-1889 e il secondo nel 1893-1897. 

A giudicare dai primi atti della sua presidenza, tuttavia, non è certo soltanto questa circostanza a rendere il secondo mandato di Trump un fatto pressoché totalmente inedito. La formazione della sua muscolosissima squadra di governo, l’alleanza con l’uomo più ricco e potente del pianeta (anzi del sistema solare), Elon Musk, le decine e decine di Executive Orders emanati dal momento del suo insediamento a oggi (8 marzo), la promessa di dazi pressoché contro tutti (Europa compresa), dichiarazioni incendiarie di politica estera (Groenlandia, Panama, Canada, Messico), rapporti sempre più tesi con il Vecchio Continente e il ricorso allo spoil system per migliaia di dipendenti pubblici stanno infatti mettendo in fibrillazione gli Stati Uniti e il mondo intero.

È naturalmente ancora presto per farsi un’opinione su cosa accadrà. È tuttavia sicuro che si annuncia – ed è anzi già iniziata – una «stagione di terremoti» dagli esiti imprevedibili. Non solo per la democrazia americana, ma anche per lo stesso ordine mondiale. 

Il discorso di Mar-a-Lago (15 novembre 2022)

Più o meno in sordina, questo secondo atto della fortuna politica di Trump ha avuto inizio con il già citato discorso di Mar-a-Lago del 15 novembre 2022. È solo allora, infatti, che l’ex presidente annunciò in modo ufficiale la sua decisione di candidarsi alla Casa Bianca per le elezioni del novembre 2024.

Pochi giorni prima, l’8 novembre 2022, si erano celebrate le cosiddette elezioni di midterm, quelle elezioni cioè che si svolgono tra due elezioni presidenziali e che, con il voto popolare, rinnovano la Camera dei rappresentanti, un terzo del Senato e, in molti Stati, i governatori e i parlamenti statali. Alla vigilia del voto, sondaggisti e opinionisti si aspettavano una robusta «onda rossa» – il colore dei repubblicani di contro al blu dei democratici – e una risalita dei consensi per Trump e i «suoi» candidati.

Le cose non andarono esattamente così, ma i democratici ne uscirono comunque fortemente indeboliti. Due anni prima, nell’Election Day del 3 novembre 2020, essi avevano ottenuto – oltre alla presidenza – la maggioranza alla Camera dei rappresentanti, con 222 seggi contro i 213 dei repubblicani. In Senato era finita alla pari: 50 seggi ai democratici e 50 ai repubblicani. Qui, però, la maggioranza ai democratici era assicurata dal voto del vicepresidente – Kamala Harris – che è al tempo stesso il presidente del Senato e può esprimere il proprio voto in caso di parità. Nel 2020, insomma, i democratici avevano la maggioranza sia alla Camera sia al Senato. Un viatico prezioso per qualsiasi presidente in carica.

Diversa la situazione dopo le elezioni di midterm dell’8 novembre 2022. Alla Camera dei rappresentanti i democratici andarono in minoranza, ottenendo 213 seggi contro i 222 dei repubblicani (una situazione invertita rispetto al 2020). Al Senato, 48 seggi andarono ai democratici e 49 repubblicani. Tre senatori indipendenti, ma allineati di fatto con i democratici, e poi sempre la vicepresidente, continuavano però a garantire la maggioranza al partito democratico. 

A ben vedere, dunque, la temuta o auspicata «onda rossa» non era arrivata. In più, molti dei candidati «trumpiani» avevano riportato risultati deludenti. Era evidente, tuttavia, che i democratici erano diventati più deboli, per di più in un paese sempre più manifestamente spaccato e in crisi. Un paese messo a dura prova da un’inflazione galoppante, dall’aumento dei tassi di interesse, dall’instabilità dei mercati finanziari, da un mercato del lavoro in contrazione, da segnali e timori generalizzati di recessione. Un paese, ancora, scosso da violente polemiche in materia di aborto, diritti civili (minoranze razziali e comunità LGBTQ+), immigrazione e controllo delle armi. L’umiliante ritiro degli americani dall’Afghanistan (immediatamente ricaduto nelle mani dei talebani) nell’agosto 2021 e poi l’inizio della guerra russo-ucraina nel febbraio 2022, duramente condannata da Biden, avevano ulteriormente alimentato i contrasti e la polarizzazione, generando discussioni senza fine sulle scelte di politica estera degli USA, sulle sanzioni alla Russia, sugli aiuti a Kiev, sulla politica energetica e sulla Nato, e riaccendendo più in generale forti spinte all’isolazionismo.

È in questo contesto che Trump tenne il suo discorso a Mar-a-Lago, quando peraltro i risultati elettorali non erano stati ancora del tutto ufficializzati. Il suo intervento fu un po’ meno incendiario del solito, ma carico di risentimento, di attacchi personali e di esagerazioni, e al tempo stesso condito di promesse strabilianti circa il futuro degli Stati Uniti, nel caso – s’intende – di un suo ritorno alla presidenza. 

In questa sorta di comizio privato, durato poco più di un’ora e tenuto di fronte a una platea di diverse centinaia di persone tra cui molti giornalisti, Trump non si limitò ad annunciare ufficialmente la sua candidatura alla presidenza, un annuncio nell’aria da diversi giorni. Mise anche in fila i temi e le parole d’ordine che avrebbero poi accompagnato, con tutti gli aggiornamenti del caso, la sua campagna elettorale nei successivi due anni. Prima per le primarie repubblicane e poi per le presidenziali. Vale dunque senz’altro la pena di partire da qui (vedi il video integrale dell’evento).

Con la sua prima presidenza – disse Trump – gli USA erano arrivati a un passo dalla loro «età dell’oro». Erano giunti all’apice del potere, della prosperità e del prestigio. Sovrastavano tutti i loro rivali, avevano sconfitto tutti i loro nemici e si stavano proiettando, fiduciosi e forti, nel futuro. Tutti – continuò – stavano facendo grandi cose e stavano prosperando come mai prima: uomini, donne, afroamericani, asiatici, ispanici. L’economia era in crescita. L’inflazione era crollata. Il confine con il Messico era sotto controllo, con una riduzione significativa del numero dei migranti illegali e del traffico di droga dall’America latina. L’indipendenza energetica degli Usa era ormai un fatto compiuto. La Cina stava cominciando ad arretrare: fabbriche e posti di lavoro avevano smesso di lasciare l’America per la Cina e stavano iniziando a lasciare la Cina per l’America. Tutte le potenze ostili – la stessa Cina, la Russia, l’Iran e la Corea del Nord – erano tenute a bada e rispettavano gli USA. L’Isis era stato decimato in meno di tre settimane «dai nostri grandi guerrieri». Nessuna nuova guerra era scoppiata. Insomma: «il mondo era in pace e l’America prosperava».

Poi però, nel 2021, erano arrivati Biden e i democratici ed era iniziata la catastrofe. Nel giro di soli due anni – tuonò Trump – gli Usa erano diventati «una nazione in declino». Milioni di americani stavano vivendo un «periodo di dolore, difficoltà, ansia e disperazione». L’inflazione, insieme ai costi dell’energia e della benzina, era alle stelle. Il confine con il Messico era stato praticamente smantellato. Da qui l’«invasione» di «milioni e milioni di persone sconosciute», molte delle quali stavano entrando in America per «ragioni molto cattive e sinistre», portando droghe mortali (tra cui il Fentanyl) che insanguinano le grandi e le piccole città dell’America, teatro di crimini sempre più violenti. Con i democratici era arrivato poi il disastro dell’Afghanistan, «il momento più imbarazzante della storia del nostro paese»: si erano perdute vite umane, miliardi di dollari e avanzatissimi equipaggiamenti militari. Era quindi iniziata la guerra in Ucraina, «che non sarebbe mai scoppiata se io fossi stato il vostro presidente» e che stava portando il mondo sull’orlo della guerra nucleare. E cosa fanno i democratici – si chiedeva Trump – mentre si corre questo rischio tremendo e immediato? Straparlano di Green New Deal e della possibilità che «l’oceano si innalzi di un ottavo di pollice nei prossimi duecento o trecento anni». Cosa fa il presidente Biden? Si addormenta alle conferenze internazionali e confonde i nomi dei paesi in cui va a parlare. In questo modo, «l’America viene derisa, sbeffeggiata e messa in ginocchio come mai prima d’ora». 

Noi però – disse Trump al diciassettesimo minuto del suo intervento – «siamo qui stasera per dichiarare che non deve essere così». Al programma della «rovina nazionale» perseguito da Biden e dai «pazzi della sinistra radicale» vogliamo contrapporre il «programma della grandezza e della gloria per l’America». «Siete pronti? (applausi, urla), io lo sono». Ecco dunque l’annuncio: «Per rendere l’America di nuovo grande e gloriosa, stasera annuncio la mia candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti». Non sarà – aggiunse Trump con i tipici tratti della retorica populista – la mia campagna, ma «la campagna di tutti noi insieme, del popolo americano […]. Io sono la vostra voce». «Combatterò (fight, fight) come nessuno ha mai combattuto prima» e sconfiggeremo i democratici della sinistra radicale che stanno cercando di distruggere il nostro paese dall’interno, nel giubilo e nella derisione delle nazioni che ci odiano.

Da qui in avanti, per altri 40 minuti, le promesse e il programma elettorale. Rinascita economica. Smantellamento del Green New Deal e politiche energetiche degne di questo nome, a suon di trivelle. Lotta all’inflazione, rafforzamento delle catene di approvvigionamento e delle manifatture nazionali. Sicurezza dei confini (soprattutto con il Messico). Lotta all’immigrazione clandestina, alla criminalità, ai cartelli e al traffico di droga (che uccide 200.000 americani all’anno). Ordine e sicurezza nelle città. Stop alle scuole che promuovono la teoria critica della razza, le follie di genere e la cultura woke. Stop alla presenza dei transgender nelle forze armate e negli sport femminili. Difesa della famiglia tradizionale. Abolizione di ogni restrizione Covid. Guerra senza quartiere alla corruzione e al marciume di Washington, che minaccia dall’interno (sistema giudiziario, Fbi e Dipartimento di giustizia) la vita pubblica: «Smantelleremo lo stato profondo e ripristineremo il governo del popolo». In politica estera nessuna partecipazione a «guerre straniere sciocche e inutili». Al tempo stesso, però, potenziamento delle nostre forze armate e costruzione di uno scudo antimissile di nuova generazione che ci metta al riparo dalla minaccia nucleare. «Avremo la pace attraverso la forza». 

Più in generale – disse Trump avviandosi a concludere – supereremo le nostre divisioni e riuniremo il nostro popolo attraverso un incredibile successo. «Difenderemo la vita, la libertà e la ricerca della felicità». «Espanderemo le frontiere della conoscenza. Amplieremo gli orizzonti della realizzazione umana. E pianteremo la nostra bella bandiera americana molto presto sulla superficie di Marte»! In questo modo, salveremo il nostro paese: «L’età dell’oro dell’America – questa, per davvero, la conclusione – è alle porte. Insieme renderemo l’America di nuovo potente. Renderemo l’America di nuovo ricca. Renderemo l’America di nuovo forte. Renderemo l’America di nuovo orgogliosa. Renderemo l’America di nuovo sicura. Renderemo l’America di nuovo gloriosa. E renderemo l’America di nuovo grande» (applausi, urla).

Come si è già detto, discorsi di questo tenore sono stati agitati come una clava per tutta la campagna elettorale: prima contro i suoi debolissimi competitor repubblicani alle primarie, quindi contro i due candidati presidenti democratici, prima Biden e poi, dopo il suo ritiro dalla corsa presidenziale, Kamala Harris. È proprio questo «programma di grandezza nazionale», insomma, che ha riscosso consensi crescenti, grazie anche a fatti nuovi, fino alla strepitosa vittoria elettorale del 5 novembre 2024. 

Le primarie e la campagna elettorale

Dopo l’intervento di Mar-a-Lago Trump ha continuato a tenere diversi discorsi pubblici e a partecipare a svariati eventi e raduni, tuonando senza sosta contro l’amministrazione Biden e il declino dell’America. È tuttavia con le primarie – le elezioni attraverso cui i partiti americani scelgono al proprio interno, nei singoli Stati, il loro candidato presidente – che la sua campagna elettorale è entrata nel vivo.

Le primarie del partito repubblicano sono iniziate ufficialmente nello Iowa il 15 gennaio 2024, circa tre settimane prima di quelle del partito democratico, cominciate il 3 febbraio successivo in South Carolina. A differenza di Biden, che come presidente in carica e candidato alla rielezione non ha avuto di fatto rivali nel suo partito, Trump, almeno all’inizio, ha dovuto confrontarsi con alcuni competitor di qualche rilievo. Tra questi, l’influente governatore della Florida Ron DeSantis e l’ex governatrice del South Carolina nonché ex ambasciatrice all’ONU Nikki Haley. Entrambi, tuttavia, si sono ritirati dalla corsa. DeSantis quasi subito, il 21 gennaio, qualche giorno dopo le primarie nello Iowa. Nikki Haley, su posizioni decisamente più moderate di quelle di Trump, ha resistito più a lungo, un paio di mesi circa, fino al cosiddetto «Super Tuesday», il giorno in cui i due partiti votano contemporaneamente in un ampio numero di Stati il proprio candidato presidente. Si tratta, di regola, di un giorno cruciale per le primarie, in cui emergono in via pressoché definitiva i due candidati alla corsa presidenziale. Nel 2024 le primarie del Super Tuesday si sono svolte il 5 marzo e hanno visto prevalere da un lato Biden e dall’altro Trump. Il giorno successivo, il 6 marzo, Nikki Haley si è ritirata dalla competizione, senza peraltro promettere il proprio sostegno a Trump fino alla conclusione delle primarie il 4 giugno 2024, quando divenne pressoché ufficiale che i due candidati alla presidenza sarebbero stati gli stessi del 2020: Joe Biden e Donald Trump. Dovevano essere poi le Convention nazionali dei due partiti, un po’ più tardi, a ufficializzare queste scelte.

Da giugno, in ogni caso, prese avvio la corsa finale verso l’Election Day del 5 novembre, la quale doveva riservare diverse sorprese. Nel frattempo – va ricordato – era ancora in corso la guerra russo-ucraina e soprattutto era iniziata, dopo la strage del 7 ottobre 2023, la cosiddetta «guerra di Gaza», destinata presto a estendersi in tutto il Medio Oriente (lo abbiamo visto in un precedente articolo). 

Sulla guerra russo-ucraina, a differenza di Biden, deciso a sostenere Kiev e a collaborare con i partner europei sul piano degli aiuti, delle sanzioni e della diplomazia, Trump mostrò un atteggiamento più conciliante nei confronti della Russia e di Putin, espresse forti dubbi sul sostegno all’Ucraina e dichiarò ripetutamente di essere in grado di negoziare assai rapidamente la fine del conflitto. Quanto al Medio Oriente, entrambi i candidati condannarono con parole durissime la strage del 7 ottobre. Trump, tuttavia, non esitò ad attribuirne la responsabilità sia pure indiretta alla debolezza dell’amministrazione Biden. Allo stesso modo, entrambi offrirono il proprio sostegno a Israele nella guerra che doveva seguirne, ma con accenti molto diversi. Biden invitò ripetutamente Netanyahu alla moderazione, a non ripetere cioè gli stessi errori che gli americani avevano commesso dopo l’11 settembre 2001 (Afghanistan, Iraq). Trump invocò invece soluzioni più drastiche da parte israeliana, soprattutto dopo l’intervento, pur temporaneo, dell’Iran nel conflitto.

È in questo clima di forte contrapposizione che sono trascorsi gli ultimi mesi della campagna elettorale, in un turbine di dibattiti e di comizi nei quali poco per volta è diventata manifesta la debolezza anche fisica del candidato democratico (allora ottantenne) a fronte dell’energia e della spavalderia del candidato repubblicano, peraltro solo relativamente più giovane (allora settantasettenne). 

L’evidente squilibrio tra i due candidati mise in serio allarme i democratici, soprattutto dopo il loro primo e unico confronto pubblico, il «Presidential Debate» che si svolse il 27 giugno 2024 ad Atlanta, in Georgia, e fu trasmesso in diretta sugli schermi della CNN. La performance di Biden – sui temi dell’economia, della sanità e della politica estera – fu assai modesta di fronte al suo ben più aggressivo e tagliente competitor (qui il video completo).

Le cose andarono ulteriormente peggiorando per i democratici e per Biden a seguito di due fatti molto importanti.

Il primo fu il fallito attentato a Trump del 13 luglio, compiuto mentre egli stava tenendo un comizio a Butler, in Pennsylvania. L’attentatore – un giovane di vent’anni mosso non si sa esattamente da quali idee e appostato sul tetto di un edificio a oltre 120 metri dal suo bersaglio – sparò diversi colpi con un fucile automatico. Riuscì a ferire a un orecchio Trump e a colpire diversi partecipanti alla manifestazione, uno dei quali perse la vita, e fu poi ucciso dai cecchini del Secret Service, incaricati di proteggere l’incolumità del candidato presidente. Sono rimaste iconiche le immagini – riportate dalle televisioni e dai giornali di tutto il mondo – di Trump circondato dagli uomini e dalle donne dei servizi segreti che si rialza da terra con il volto in parte insanguinato e arringa la folla con il pugno chiuso e – come a Mar-a-Lago – con il suo grido di battaglia: fight! fight! Al di là del rischio effettivamente corso, fu un passaggio decisivo, sul piano comunicativo, della campagna elettorale di Trump: un uomo deciso a mettere a repentaglio la sua vita per le sue idee e il suo paese, e protetto da Dio, come egli ripeté più volte in seguito.

Contemporaneamente si verificò il secondo fatto. Elon Musk – uno degli uomini più ricchi e potenti della terra, visionario imprenditore delle comunicazioni, proprietario di X (Twitter), di Tesla, di Starlink, di una fiorente industria privata dei voli spaziali e di molto altro – dichiarò pubblicamente proprio allora, subito dopo l’attentato, il suo pieno sostegno a Trump e alla sua candidatura presidenziale. In precedenza, i loro rapporti non erano stati idilliaci. Da quel momento, però, Musk divenne uno dei suoi principali fan e finanziatori, partecipando e intervenendo personalmente, tra l’altro, a un successivo comizio tenuto da Trump il 5 ottobre proprio a Butler, il luogo dell’attentato (qui il suo discorso). Un endorsement di enorme importanza e valore (anche in termini di finanziamenti) che doveva poi tradursi – lo vedremo a breve – in una collaborazione ben più concreta.

Pochi giorni dopo l’attentato, tra il 15 e il 18 luglio, la Convention nazionale repubblicana, riunita a Milwaukee, ufficializzò in via definitiva la candidatura del suo eroe. Trump si presentò con l’orecchio ancora vistosamente fasciato: «Dio mi ha salvato – disse – e non mi arrenderò mai. Non permetteremo al male di vincere». Come suo candidato vicepresidente nominò il senatore dell’Ohio James D. Vance, un giovane politico di scarsa esperienza ma celebre per il suo libro Elegia americana (2016), un affresco molto efficace del declino della middle class bianca in America, uno dei cavalli di battaglia del populismo trumpiano.

Ben diversa la situazione sul fronte del partito democratico. Tallonato dai media e assediato dal suo più ristretto entourage, Biden, anche se riluttante, annunciò ufficialmente il 21 luglio il suo ritiro dalla corsa presidenziale. Un mese più tardi la Convention nazionale democratica, riunita a Chicago tra il 19 e il 22 agosto, ufficializzò la candidatura della vicepresidente di Biden, Kamala Harris. Come candidato vicepresidente Harris scelse il governatore del Minnesota Tim Waltz.

Era una svolta clamorosa, che suscitò da più parti aspre polemiche sulla scarsa democraticità di questa decisione e che però ridiede per qualche tempo speranza ai democratici. La ben più giovane Kamala, che aveva allora 58 anni (venti di meno di Trump) donna, afroamericana, vicepresidente dal 2021, prima procuratrice generale della California e poi senatrice, sparigliò le carte, costringendo il suo competitor a riorientare la sua campagna. Almeno sul piano degli attacchi personali – una specialità di Trump – la scena era cambiata. Lo si vide abbastanza chiaramente nel «Presidential Debate» tra i due candidati. Un dibattito tenutosi a Philadelphia e trasmesso in diretta sugli schermi di ABC News il 10 settembre (qui il video completo). Harris riuscì allora a incalzare il suo avversario sui temi dell’aborto, dell’immigrazione, del suo rapporto con Putin e, ancora, dell’«assalto al Campidoglio» del 6 gennaio 2021. 

Molti analisti valutarono sul momento in modo assai positivo la sua performance. Fu però l’unico confronto diretto tra i candidati. Trump si rifiutò di incontrare nuovamente la sua competitor prima delle elezioni di novembre, che alla fine, dopo molti altri comizi delle due parti, si celebrarono nell’incertezza generale degli stessi sondaggisti. Ci si aspettava un testa a testa a livello nazionale, reso particolarmente imprevedibile dai cosiddetti «swing states», gli Stati in bilico. Quegli Stati, cioè, che potevano portare all’uno o all’altro dei candidati un significativo bottino di «voti elettorali» con differenze minime nel «voto popolare». 

L’Election Day del 5 novembre 2024

Abbiamo già spiegato più in dettaglio in un precedente articolo – a cui rimandiamo qui con riferimento al paragrafo sulle «regole del gioco» – come funzionano le elezioni  presidenziali negli Stati Uniti. In estrema sintesi, e al netto di molti importanti dettagli, i cittadini americani non eleggono direttamente il presidente. Sono chiamati a eleggere dei «grandi elettori» (è il cosiddetto «voto popolare») i quali poi, in un secondo momento, eleggeranno il presidente (è il cosiddetto «voto elettorale»). Può esserci una forte discrepanza tra il voto popolare e il voto elettorale perché la prima elezione si svolge con il sistema maggioritario in collegi plurinominali coincidenti con i singoli Stati. Il che significa che il partito che prende più voti nel singolo Stato, anche un solo voto in più, «prende tutto». Elegge cioè un numero di grandi elettori pari al numero totale dei seggi in palio in quello Stato, che nel 2024 oscillavano dai 3 del Wyoming ai 54 della California. Per essere chiari: un voto in più per il partito A rispetto al partito B in California si traduce in 54 grandi elettori per il primo e in 0 grandi elettori per il secondo. Per questa ragione, nelle elezioni americane l’attenzione è sempre puntata sui cosiddetti «swing states», gli Stati in bilico, dove i partiti sono testa a testa e poche manciate di voti possono decidere tutto. I grandi elettori sono complessivamente 538. Il partito che ne conquista la metà più uno ha pressoché automaticamente vinto l’elezione presidenziale.

Come sono andate le cose nelle elezioni del 5 novembre 2024? Si deve anzitutto dire che la partecipazione al voto è stata molto elevata: circa il 68% degli americani si è recato alle urne, di contro al 65% del 2020 e al 59% del 2016. 

A livello di voto popolare, Trump (meglio: i grandi elettori di Trump) ha ottenuto oltre 77 milioni di voti popolari (molti di elettori ispanici e afroamericani) a fronte dei 75 milioni di voti per (i grandi elettori di) Kamala Harris. Una differenza importante, ma non abissale, che ha restituito l’immagine di un paese spaccato in due. 

Il sistema elettorale maggioritario sopra descritto e in particolare la conquista di 7 «swing states» hanno tuttavia favorito in modo schiacciante il partito repubblicano, che ha ottenuto 312 grandi elettori di contro ai 226 del partito democratico. Ben oltre la soglia dei 270 elettori necessari per conquistare la presidenza. Il 16 dicembre successivo, i grandi elettori hanno quindi votato in modo compatto per il proprio candidato (potrebbero in teoria non farlo). Quel giorno, dunque, Donald Trump è diventato il «presidente eletto» degli Stati Uniti. Un mese dopo, il 20 gennaio, sarebbe diventato il presidente a tutti gli effetti dopo la cerimonia di insediamento dell’Inauguration Day.

Si deve ancora aggiungere che, contestualmente alle elezioni presidenziali, il 5 novembre si sono svolte anche le elezioni per la Camera dei rappresentanti e per il rinnovo di un terzo del Senato. Anche in questo caso i risultati sono stati del tutto favorevoli al partito repubblicano e al suo leader ormai indiscusso: maggioranza alla Camera, con 218 seggi su 435 e maggioranza al Senato, con 53 seggi su 100. Un successo su tutta linea, insomma.

L’Inauguration Day (20 gennaio 2025)

A differenza di quanto era successo il 6 gennaio 2021 con l’assalto al Campidoglio, il 6 gennaio 2025 il Congresso degli Stati Uniti ha certificato la vittoria di Trump senza disordini di sorta. La seduta delle due Camere riunite è stata presieduta dalla stessa vicepresidente uscente Kamala Harris, la candidata sconfitta nella corsa presidenziale. 

Gli ultimi atti della presidenza Biden tra le elezioni e l’insediamento di Trump hanno fatto molto discutere e suscitato grande irritazione nel futuro presidente. Biden confermò un nuovo consistente pacchetto di aiuti finanziari e militari all’Ucraina. Intensificò le azioni diplomatiche in Medio Oriente assicurando che presto si sarebbe giunti a una solida tregua nel conflitto israelo-palestinese. In politica interna rafforzò le politiche sociali a favore delle fasce più vulnerabili della popolazione. Per contrastare il cambiamento climatico adottò importanti misure contro le trivellazioni offshore e l’estrazione di gas e petrolio in ampie aree delle acque federali statunitensi. Utilizzando infine il potere di grazia presidenziale, commutò diverse decine di condanne a morte nel carcere a vita e graziò migliaia di condannati. Tra questi, alcuni membri della propria famiglia, compreso il figlio Hunter, condannato per detenzione illegale di armi e reati fiscali. Concesse anche la grazia preventiva ad Anthony Fauci, uno dei principali consiglieri delle sue politiche restrittive sul Covid, per impedire – come nel caso dei suoi familiari graziati – eventuali persecuzioni giudiziarie sotto la nuova presidenza. Tutte queste scelte, ovviamente, suscitarono roventi polemiche.

Giunse infine l’Inauguration Day, il 20 gennaio, il giorno dell’insediamento di Trump. Una cerimonia solenne che si tenne all’interno del Campidoglio per l’ondata di freddo polare che in quei giorni aveva investito Washington D.C. 

Di fronte a Biden, agli ultimi presidenti USA (Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama) e a una folla di deputati, senatori, governatori, uomini politici e giornalisti, prima Vance e poi Trump hanno giurato sulla Bibbia di «preservare, proteggere e difendere la Costituzione degli Stati Uniti» e di «svolgere fedelmente» i propri compiti di governo. Quindi Trump ha pronunciato il proprio Inaugural Address (qui il video completo), sostanzialmente una fotocopia del discorso di Mar-a-Lago del 15 novembre 2022 da cui siamo partiti. «L’età dell’oro dell’America – queste le sue prime parole – inizia proprio ora». Da qui in poi, per circa trenta minuti, le promesse più volte annunciate: fine del declino americano ottusamente provocato dai democratici. Forza e rispetto in tutto il mondo. America first. «Rivoluzione del buon senso». Fine dei finanziamenti illimitati alle guerre degli altri. Protezione massima del confine meridionale con il Messico, guerra alla droga, ai cartelli, alla criminalità che insanguina le nostre città. Trivelle a tutta forza («Drill, baby, drill») per superare la crisi energetica e ritornare a essere il più grande paese manifatturiero del mondo. Stop al Green New Deal. Dazi ai paesi stranieri per arricchire i nostri cittadini. Fine dell’ingegneria sociale su razza e genere e riconoscimento che «esistono solo due generi: maschile e femminile». Pacificazione del mondo e unità del paese. «Con il vostro aiuto e la vostra fede – concluse Trump – guideremo l’America verso un’era di pace, prosperità e grandezza mai vista prima. Che Dio benedica gli Stati Uniti d’America». 

I primi atti 

Poco dopo aver pronunciato queste parole, Trump è passato ai fatti, firmando una batteria di Executive Orders, vale a dire di ordini esecutivi dotati di efficacia immediata ed emanati direttamente dal presidente. Si tratta di direttive che non richiedono l’approvazione del Congresso, anche se devono essere compatibili con la legislazione federale esistente e con la Costituzione, e che possono però essere annullati o modificati da un nuovo presidente. 

A oggi (8 marzo) Trump ne ha emessi un centinaio, di cui quasi 30 lo stesso 20 gennaio 2025 (un record assoluto per il primo giorno di insediamento). Tra le misure più rilevanti possiamo citare il ritiro degli USA dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dall’Accordo di Parigi sul clima; l’imposizione di dazi del 25% su tutte le importazioni dal Messico e dal Canada e del 10% su quelle dalla Cina (poi raddoppiate al 20%); la creazione di un nuovo cosiddetto «Dipartimento per l’Efficienza Governativa» (DOGE), affidato a Elon Musk, per ridurre gli sprechi del governo federale e accrescerne appunto l’efficienza; l’introduzione di maggiore flessibilità per l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti federali; l’abolizione dello ius soli, che permetteva di conferire la cittadinanza americana ai figli dei non-cittadini americani residenti negli USA; l’autorizzazione di operazioni di forza per rimandare nei loro paesi d’origine gli immigrati irregolari, soprattutto quelli che hanno commesso crimini nel paese; lo smantellamento di svariati programmi federali per l’equità, la diversità e l’inclusione; il divieto per i transgender di far parte delle forze armate; svariati incentivi per la produzione di combustibili fossili e riduzione delle restrizioni ambientali. Insomma: un vero e proprio uragano, che sta acquistando una forza crescente.

Al tempo stesso, Trump ha messo a punto la sua squadra di governo, con scelte da molti assai criticate. Tra le figure di spicco, Marco Rubio, Segretario di Stato; Scott Bessent al Tesoro, Pete Hegseth alla Difesa, Robert F. Kennedy jr. (fiero antivaccinista) alla Salute. A Elon Musk – tra le altre cose esperto «tagliatore di teste» e già all’opera – è stata affidata la guida informale del già citato DOGE, che ha iniziato a licenziare in massa dipendenti pubblici.

In politica estera il neopresidente ha subito mostrato il suo stile aggressivo. Ha avanzato pretese sulla Groenlandia, che appartiene alla Danimarca, per necessità strategiche. Ha minacciato di riprendersi con la forza il canale di Panama. Ha chiesto al Canada di diventare il 51° Stato degli USA. Ha ribattezzato il golfo del Messico «golfo d’America». Ha poi alzato in misura davvero inedita i toni con l’Europa e soprattutto l’Ue, portando i rapporti transatlantici ai minimi storici, ben oltre quanto era già successo negli anni della presidenza Bush e della guerra in Iraq (2003). Insieme a Musk non ha fatto mistero delle proprie simpatie per le forze antieuropeiste e sovraniste in crescita in vari paesi europei. Provocando sconcerto e disorientamento, ha minacciato dazi di ogni tipo sulle importazioni dal Vecchio Mondo, ha chiesto consistenti aumenti delle spese militari europee per la Nato e ha manifestato la chiara volontà di lasciare l’Europa agli europei con tutti i suoi guai, Russia in testa. 

In Medio Oriente ha minacciato «l’inferno» se gli ostaggi israeliani di Hamas non verranno immediatamente rilasciati e ha ventilato l’ipotesi del trasferimento forzato dei palestinesi in altri paesi arabi, in modo da svuotare Gaza dalle sue immense macerie e trasformarla in una specie di magnifico resort per ricchi. 

Sulla guerra russo-ucraina – decisiva per i rapporti tra USA ed Europa – ha manifestato la volontà di chiudere il conflitto presto e a ogni costo, trattando direttamente con la Russia di Putin alle spalle del paese invaso e della stessa Europa. In cambio di garanzie di sicurezza, ha chiesto a Zelensky – definito un «dittatore», un «attore mediocre» e il vero «responsabile della guerra» con la Russia – di firmare un accordo sulle terre rare presenti in quel paese per ripagare i miliardi che gli americani hanno investito nella guerra. Il 28 febbraio è arrivato a cacciare letteralmente dalla Casa Bianca, di fronte a giornalisti e telecamere, il presidente ucraino in visita ufficiale a Washington, accusandolo esplicitamente di non volere per davvero la pace e di aver mancato di rispetto all’America e a lui stesso. Uno spettacolo, a detta di tutti o quasi, semplicemente indecoroso, soprattutto se trasmesso in mondovisione (qui il video completo di quella che è stata definita una vera e propria «rissa alla Casa Bianca»).

Età dell’oro?

È impossibile prevedere come potrà ulteriormente evolvere la politica americana e mondiale nella nuova era Trump. Su alcune direttive e posizioni il neopresidente ha fatto, negli ultimi giorni, qualche passo indietro. Ha ripreso, sia pure a distanza, il dialogo con Zelensky sulle terre rare in Ucraina, sulla pace con la Russia e sulle garanzie di sicurezza che gli USA potrebbero garantire a quel paese, cominciando anche ad alzare la voce con Putin. Ha sospeso per qualche settimana l’effettiva entrata in vigore dei dazi nei confronti di Canada e Messico, forse consapevole del rimbalzo che questi avrebbero avuto sull’economia americana. Ha preso in parte le distanze da Musk sui licenziamenti indiscriminati dei pubblici funzionari annunciati dal DOGE. Al netto della sua imprevedibilità – che rimarrà probabilmente un tratto costante della sua presidenza – egli sta però mantenendo tutte le promesse fatte dal discorso di Mar-a-Lago del 2022 all’Inauguration Day del 20 gennaio 2025. E lo sta facendo con una forza e un’aggressività davvero inedite, che è riemersa platealmente nell’alluvionale discorso sullo Stato dell’Unione (100 minuti) tenuto al Congresso il 4 marzo 2025 (qui il video completo): un’ulteriore replica del discorso di Mar-a-Lago.

È per quelle promesse, del resto, che gli americani lo hanno eletto il 5 novembre dell’anno scorso e al momento non si vedono forze o personalità all’interno del paese che abbiano l’intenzione e la capacità di contrastarlo o almeno di contenerlo.

Che quelle promesse effettivamente «promettano» una nuova «età dell’oro» è però assai dubbio. Almeno per ora, il mondo sembra sprofondare in una nuova età del ferro, in un’epoca in cui la forza dei più forti – l’America, la Russia e la Cina – decide tutto, con buona pace del diritto internazionale, del multilateralismo e degli stessi tradizionali rapporti transatlantici. 

Ma in effetti, la promessa di Trump riguardava una «nuova età dell’oro dell’America». Sarà davvero così se la strada sinora percorsa è quella che si continuerà a percorrere nel futuro? C’è da dubitarne. La forza dell’America – come hanno rilevato diversi osservatori – non sta soltanto nel suo hard power, nella sua potenza economica, finanziaria e militare, che pure è decisiva. Sta anche, e per certi aspetti soprattutto, nel suo soft power, e cioè nella sua capacità di esercitare egemonia (e non brutale dominio) sulla base dei suoi valori: libertà, democrazia, pluralismo, rispetto del diritto internazionale. È questo soft power che ha garantito per molti decenni il primato americano. Ed è proprio questo soft power che la nuova America di Trump – con la sua postura arrogante (la pace attraverso la forza) e mercantile (dazi e terre rare) – sta perdendo in modo consistente giorno per giorno. Non è certo una buona notizia per quel «sogno americano» e per quella nuova età dell’oro americana che Trump ha promesso ai suoi elettori. Potrebbe invece esserlo – forse – per l’Europa, che tra mille difficoltà sta almeno prendendo coscienza dei nuovi compiti che la attendono in un mondo complicato e bellicoso in cui i rapporti transatlantici vacillano paurosamente.