
In una intervista rilasciata il 21 settembre 2025 al quotidiano belga «Le Soir» e pubblicata contemporaneamente su diversi altri giornali europei (tra cui «La Repubblica»), la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha affermato con grande enfasi che l’Europa e il mondo intero stanno attraversando «tempi molto pericolosi». Aveva già usato la stessa espressione qualche mese prima a Bruxelles, in occasione della presentazione del progetto «ReArm Europe», e poi a Strasburgo, in un discorso al Parlamento europeo. Questa volta, però, il riferimento ai «tempi pericolosi» era in risposta a una domanda molto diretta e altrettanto inquietante dell’intervistatore: «Stiamo andando verso la terza guerra mondiale»? «No – ha risposto von der Leyen – ma viviamo in tempi molto pericolosi». Subito dopo ha aggiunto: «Farò tutto quello che è in mio potere per preservare la pace e la libertà in Europa. È proprio per questo che stiamo rafforzando le nostre capacità di difesa con così tanta determinazione. In un mondo sempre più ostile (corsivo mio), dobbiamo fare tutto il possibile per salvaguardare la democrazia, la prosperità e la pace».
Pronunciate in Europa, un «piccolo angolo di mondo» sostanzialmente in pace dal 1945, queste parole sembrano semplicemente inconcepibili. È difficile metterne a fuoco la portata. È un fatto, però, che stanno dilagando ovunque le retoriche e gli allarmi sulla possibilità di una nuova major war: una grande e distruttiva guerra tra grandi potenze, la «terza guerra mondiale» appunto. Non semplicemente nel senso, per certi aspetti rassicurante, della «terza guerra mondiale a pezzi», di cui abbiamo già parlato in un precedente articolo. Ma nel senso di una vera e propria «guerra mondiale», in qualche modo assimilabile ai due grandi conflitti che hanno sconvolto la prima metà Novecento. Una guerra, si deve aggiungere, che oggi si combatterebbe con le armi infinitamente più distruttive messe a punto da allora: bombe atomiche e termonucleari, missili ipersonici, droni, «armi autonome» e molti altri strumenti di morte – come ha detto Donald Trump in uno dei suoi tanti discorsi pubblici – «che non vorreste nemmeno conoscere».
«Terza guerra mondiale» o espressioni consimili circolano in effetti con frequenza sempre maggiore. Il presidente Usa Donald Trump, a modo suo, ne ha evocato più volte il rischio, attribuendone la responsabilità prima ai democratici e a Biden e poi addirittura allo stesso leader ucraino Zelensky (così il 28 febbraio 2025 alla Casa Bianca: «stai giocando con la terza guerra mondiale»). Più recentemente, il 18 settembre, in una conferenza stampa congiunta con il premier britannico Keir Starmer al termine di una visita ufficiale nel Regno Unito, ha tuonato contro la Russia affermando di non volere «una terza guerra mondiale» tra potenze nucleari.
Anche per Vladimir Putin e il suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov – per tacere del suo portavoce Dmitrij Peskov, dell’ex presidente russo Dmitrij Medvedev e più in generale dei media russi – la «terza guerra mondiale» si avvicina molto pericolosamente. Lo ha ripetuto di recente, il 27 settembre, Marija Zacharova, portavoce del ministro degli Esteri, alludendo a fantomatici piani ucraini di sabotaggio da condursi – sotto «falsa bandiera», attribuendoli cioè alla Russia – ai danni di Polonia e Romania per scatenare l’inferno: «mai in epoca moderna – ha detto – l’Europa è stata così vicina all’inizio della terza guerra mondiale».
Meno diretto, ma altrettanto chiaro il leader cinese Xi Jinping. Il 3 settembre – il giorno in cui la Cina commemora la vittoria cinese sul Giappone nella Seconda guerra mondiale – circondato da Putin, dal leader coreano Kim Jong-un e da molti altri esponenti del cosiddetto «Sud globale», tra i quali l’indiano Narendra Modi e il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, Xi ha affermato che «l’umanità (corsivo mio) oggi si trova di fronte alla scelta tra pace e guerra, dialogo e confronto, cooperazione win-win e giochi a somma zero». Ha aggiunto, naturalmente, di non volere la guerra, di mirare a un modello più giusto ed equo di ordine mondiale, facendo però seguire alle parole una delle più colossali parate militari della storia della Cina comunista, con l’esibizione di armi spaventose: missili con testate nucleari, navi e sottomarini, aerei di ultima generazione, droni e sistemi antidrone e quant’altro. Uno spettacolo davvero inquietante.
Insomma, nessuno (forse) vuole una terza guerra mondiale. Ma tutti ne parlano sempre più spesso, talora con toni minacciosi, quasi sempre con crescente preoccupazione. E ciò accade in un mondo che è divenuto palesemente instabile e che al tempo stesso è profondamente interconnesso nei suoi tre quadranti di maggiore crisi: l’Eurasia, il Medio Oriente e l’Indo-pacifico.
A che punto siamo oggi? Ci stiamo davvero proiettando – consapevolmente o come «sonnambuli» – verso un nuovo conflitto mondiale?
La guerra ai confini dell’Europa
Gli occhi di molti sono oggi puntati sul tragico e disumano massacro che si sta consumando nella Striscia di Gaza, di cui parleremo a breve. Lo scenario più preoccupante, tuttavia, è quello della guerra russo-ucraina, che minaccia di degenerare in un ben più ampio e pericoloso confronto diretto tra la Federazione Russa e la NATO. Un confronto ormai aperto, ma per ora contenuto entro gli schemi già molto allarmanti della «guerra ibrida».
Della guerra russo-ucraina ci siamo già ampiamente occupati in altri due articoli. Nel primo, pubblicato poco dopo l’inizio del conflitto il 24 febbraio 2022, ne abbiamo analizzato le cause e i primi sviluppi (Ucraina: la guerra di Putin). Nel secondo, pubblicato al principio del 2025, abbiamo continuato a seguirne lo svolgimento per i successivi tre anni, provando a collocare quel conflitto nella turbolenta serie di guerre di varia intensità che stanno affligendo gran parte del pianeta («Terza guerra mondiale a pezzi»?). Abbiamo poi almeno in parte aggiornato l’analisi al maggio 2025, parlando dei primi cento giorni della presidenza Trump, che ha impresso una svolta profonda alla guerra, da un lato prendendo inizialmente le distanze dall’Ucraina e dalla stessa Europa e dall’altro cercando di seguire una linea di appeasement con la Russia di Putin (The age of Chaos, I primi cento giorni di Trump).
Da allora il conflitto si è andato ulteriormente incattivendo, senza tuttavia produrre, almeno ad oggi, decisivi progressi sui campi di battaglia, con un bilancio di centinaia di migliaia di perdite umane tra morti e feriti militari e civili. Proprio a partire da maggio, infatti, la Russia ha intensificato i suoi attacchi, riuscendo a conquistare diverse centinaia di km2 di territorio ucraino. Al tempo stesso, ha ripetutamente martellato dai cieli l’intero paese – con droni e missili balistici scagliati su obiettivi militari e civili – colpendo più volte la capitale Kiev e, al principio di settembre, lo stesso palazzo del governo. Dal canto loro, le forze militari ucraine sono riuscite in parte a contenere l’offensiva russa in diversi settori del fronte. In alcuni casi hanno ripreso il controllo di villaggi e postazioni considerate strategiche. Sono riuscite poi a colpire o a sabotare dietro le linee, e cioè in territorio russo, infrastrutture militari e logistiche del nemico. Di particolare impatto l’operazione «Spiderweb», all’inizio di giugno, che ha preso di mira con sciami di droni diverse basi aeree del nemico a grande distanza dal fronte, producendo danni ingenti alla flotta strategica russa di bombardieri. Ad essa sono seguiti ulteriori attacchi con droni contro porti e diverse raffinerie Gazprom. Pur nel quadro di una netta superiorità delle forze militari di Mosca, insomma, sul campo gli esiti della guerra restano tuttora altamente incerti.
Ciò che è cambiato e sta tuttora cambiando ad alta velocità è il contesto più generale del conflitto. L’iniziale tentativo del presidente Trump di porre fine alle ostilità attraverso la ricerca di un accordo diretto con Putin da realizzarsi in ampia misura senza (o addirittura contro) la volontà degli ucraini e della stessa Unione europea ha infatti prodotto una serie di effetti di grande rilievo. Ha anzitutto consolidato la decisione degli ucraini di resistere a ogni costo e senza compromessi all’aggressione russa e la loro volontà di recuperare tutti i territori perduti con la guerra, Crimea compresa (annessa dai russi già nel 2014). Ha poi spinto, già in marzo, l’Ue a mettere in campo, su impulso della Commissione, un piano molto consistente di riarmo, il cosiddetto ReArm Europe, poi ribattezzato European Defence – Readiness 2030: un piano reso urgentissimo dalla percezione dei partner europei del disimpegno americano. Ha quindi reso sempre più aggressivo e arrogante lo stesso Putin, soprattutto dopo gli onori che gli sono stati tributati da Trump nell’incontro bilaterale svoltosi ad Anchorage, in Alaska, il 15 agosto. Si è trattato di un meeting del tutto inconcludente sul piano pratico, da cui – secondo tutti gli analisti – Putin è uscito vincitore: riabilitato come un grande leader mondiale dal presidente americano e al tempo stesso indisponibile a qualsiasi reale trattativa sulla questione ucraina. La sua presenza, pochi giorni dopo, alla spettacolare parata militare cinese del 3 settembre, a fianco di Xi Jinping e di decine di influenti leader del Sud Globale e di nemici giurati dell’«Occidente», ha infine coronato il suo successo. Mostrando, al tempo stesso, il carattere del tutto illusorio della strategia trumpiana di sottrarre la Federazione Russa all’abbraccio con la Cina, il vero e grande nemico degli Stati Uniti.
A quel punto, anche di fronte alla crescente virulenza delle offensive e dei bombardamenti russi, l’atteggiamento di Trump è cambiato. «Putin mi ha davvero deluso» ha detto il 18 settembre, nella conferenza stampa congiunta con il premier Keir Starmer che ha chiuso la sua visita ufficiale nel Regno Unito, La stessa in cui egli aveva evocato lo spettro della «terza guerra mondiale». Non era certo la prima volta che Trump esprimeva questa «delusione». Lo aveva già fatto in altre precedenti occasioni, anche prima dell’incontro di Anchorage. Adesso, però, quella delusione lo ha riavvicinato in qualche modo a Zelensky e agli stessi alleati europei, che per tutta l’estate avevano fatto forti pressioni per ottenere il suo sostegno a Kiev.
Ha rappresentato una svolta di grande rilievo – ma da prendere con le pinze data l’imprevedibilità di Trump – l’incontro tra il presidente Usa e Zelensky il 24 settembre, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu. In quell’occasione e sui social, Trump è arrivato a definire la Russia una «tigre di carta» e ad affermare che, con il sostegno dell’Ue e della Nato, l’Ucraina potrebbe riconquistare i territori perduti con la guerra. A questo scopo – ha aggiunto – sarebbe fondamentale che l’Ue cessasse del tutto di acquistare petrolio russo e che venissero posti dazi elevatissimi contro il principale sostenitore di Putin, la Cina. Per bocca del suo inviato speciale in Ucraina Keith Kellogg, Trump ha poi autorizzato attacchi a lungo raggio contro la Russia. E, come se non bastasse, sta attualmente valutando la possibilità di fornire all’Ucraina missili Tomahawk, missili da crociera in grado di colpire con precisione obiettivi a grande distanza con testate convenzionali o nucleari. Da ultimo, il 30 settembre, in un discorso infuocato di fronte a 800 generali americani giunti da tutto il mondo nella base di Quantico, in Virginia, ha detto di essere pronto anche a un confronto nucleare, anche se non è certo il suo auspicio. La situazione, insomma, è in piena evoluzione. Se tutto questo porti alla pace oppure a una escalation nella guerra è tutto da vedersi. L’affermazione del portavoce del Cremlino Peskov – «la Russia non è una tigre di carta, ma un vero orso» – non promette niente di buono.
Nel frattempo, sia pure «solo» in forma ibrida, il conflitto ha cominciato a estendersi pericolosamente oltre i confini ucraini. Da diverse settimane, infatti, si registrano continui attacchi informatici contro strutture civili strategiche europee e soprattutto continue violazioni dello spazio aereo Ue e Nato da parte di droni e anche di aerei da guerra russi. Non si tratta, beninteso, di una novità assoluta. Il fenomeno ha raggiunto però un’intensità davvero allarmante tra la fine di agosto e nel corso del mese di settembre. Dopo che lo stesso aereo su cui viaggiava Ursula von der Leyen è stato costretto, il 31 agosto, a un atterraggio di emergenza per sospette interferenze russe sul segnale GPS dell’aeroporto bulgaro di Plovdiv – un fatto gravissimo – il primo paese a farne le spese è stata la Polonia, nel cui spazio aereo sono penetrati una ventina di droni russi nella notte tra il 9 e il 10 settembre. Pochi giorni dopo, il 14 settembre, sia pure in misura decisamente minore, è toccato alla Romania. Il 19 settembre tre Mig russi hanno violato per ben 12 minuti lo spazio aereo dell’Estonia, facendo immediatamente alzare in volo aerei da guerra della Nato. Il giorno dopo, il 20 settembre, mentre un attacco informatico mandava in tilt gli aeroporti di Bruxelles, Londra e Berlino, altri jet russi hanno sorvolato a bassa quota una piattaforma petrolifera nel Baltico, in acque territoriali polacche. Negli ultimi giorni di settembre, in uno stillicidio quotidiano, droni russi hanno sorvolato (e in alcuni casi paralizzato) diversi areoporti e anche una base militare nella penisola scandinava: in Danimarca, Norvegia e Finlandia. Zelensky ha affermato che la stessa Italia potrebbe trovarsi a breve nella stessa situazione. Mosca nega, naturalmente, ogni coinvolgimento. Accusa anzi l’Ucraina di operazioni «false flag», dirette ad accendere la miccia di una guerra aperta tra la Nato e la Russia. È più probabile, secondo molti analisti, che azioni del genere siano in realtà finalizzate a testare le capacità di reazione dei paesi Nato e a terrorizzare le opinioni pubbliche europee.
Come che sia, la situazione è esplosiva. Il rischio di incidenti dalle conseguenze imprevedibili è elevatissimo. La Polonia e l’Estonia hanno già invocato l’art. 4 della Nato, che prevede appunto consultazioni urgenti tra i paesi dell’Alleanza in risposta a una minaccia di guerra. Nel contempo, l’Ue sta valutando il progetto di costruire un «muro anti-droni» sul suo confine orientale. Siamo insomma a un passo dal richiamo all’art. 5, e cioè da una possibile guerra tra la Russia e la Nato. «Tempi molto pericolosi», appunto.
Il Medio Oriente e la guerra di Gaza
Anche della drammatica guerra in corso in Medio Oriente ci siamo occupati a più riprese: prima, ricostruendo brevemente la storia del conflitto israelo-palestinese e l’imponente accelerazione che esso ha subito nei mesi successivi ai mostruosi attentati del 7 ottobre 2023; poi, seguendo lo sviluppo e l’estensione del conflitto a tutto il Medio Oriente fino all’estate del 2024 e quindi al principio del 2025; da ultimo, aggiornandone i principali svolgimenti durante i primi cento giorni della presidenza Trump, fino al maggio 2025.
Da allora – grosso modo dalla primavera-estate 2025 – il conflitto si è dapprima pericolosamente esteso su scala regionale, sia pure per pochi giorni, e poi è andato concentradosi nella Striscia di Gaza (con importanti riflessi anche in Cisgiordania), aggravando una catastrofe umanitaria di enormi proporzioni ai danni dei civili palestinesi. Una catastrofe – si deve aggiungere – che il 16 settembre una commissione indipendente delle Nazioni Unite, presieduta dalla giurista sudafricana Navi Pillay, ha classificato come un vero e proprio «genocidio» e che come tale è considerato da ampi segmenti dell’opinione pubblica internazionale. La definizione è contestata. Si calcola però – così almeno riferisce il Ministero della Salute di Gaza – che a oggi le vittime della guerra siano ormai quasi 70.000, in gran parte civili, molti dei quali bambini, donne e anziani. E questo senza contare i decessi dovuti alla fame e al tracrollo delle infrastrutture sanitarie palestinesi. Un bilancio spaventoso, insomma, che già nel novembre 2024, aveva spinto la Corte penale internazionale a emettere un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti di Netanyahu e del suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant, insiema a Mohammed Deif, uno dei leader militari di Hamas.
Per ricostruire questi sviluppi, conviene ripartire dalla tregua che tra il 19 gennaio e il 18 marzo 2025 – tra la fine dell’amministrazione Biden e gli inizi della presidenza Trump – aveva almeno in parte alleggerito la tragedia di Gaza e portato alla liberazione di diversi ostaggi del 7 ottobre e di moltissimi palestinesi prigionieri in Israele. Da quel 18 marzo, tuttavia, grazie al sostegno incondizionato di Trump a Israele e a seguito di ripetute violazioni del cessate il fuoco e dell’umiliante spettacolarità che Hamas aveva voluto imprimere alla liberazione degli ostaggi, la guerra di Gaza è ripresa in grande stile, con attacchi aerei e di terra, blocco degli aiuti umanitari, esodi e controesodi dei palestinesi lungo la Striscia.
Nonostante qualche timido e infruttuoso tentativo diplomatico che a maggio aveva messo in dialogo Usa, Ue, Giordania, Qatar ed Egitto, la situazione si è ulteriormente complicata con l’operazione «Rising Lion»: il bombardamento israeliano delle infrastrutture militari e nucleari dell’Iran (il principale e più potente sostenitore di Hamas e di altri gruppi terroristici della regione come Hezbollah e gli Houti) il 13 giugno 2025. La risposta iraniana non si è fatta attendere: decine di droni e di missili balistici furono lanciati contro Tel Aviv, Gerusalemme e altre aree residenziali del paese. Da qui l’ulteriore rappresaglia di Israele, che nelle successive 48 ore continuò a colpire depositi missilistici e centri di comando iraniani, con un bilancio complessivo di 400 morti (tra questi scienziati e militari) e severe distruzioni materiali a fronte di una decina di vittime civili in Israele. Per le pressioni internazionali, il rischio di un’ulteriore escalation a livello regionale venne allora scongiurato. Il conflitto israelo-palestinese tornò, tuttavia, a concentrarsi drammaticamente sulla Striscia di Gaza e in parte, per i continui sconfinamenti dei coloni, in Cisgiordania.
È pressoché impossibile seguire nel dettaglio lo sviluppo della colossale offensiva di terra scatenata dal governo Netanyahu e dall’Israeli Defence Force nell’estate 2025. Le operazioni militari – condotte con mezzi corazzati, bulldozer, forze speciali, bombardamenti a tappeto – hanno subito una brusca e massiccia accelerazione negli ultimi giorni di luglio con l’attacco a Deir al-Balah, una città di circa 100.000 abitanti collocata al centro della Striscia. Sono poi proseguite, con il richiamo in servizio di decine di migliaia di riservisti, tra agosto e settembre contro la stessa Gaza City, dove secondo i vertici politici e militari israeliani sono nascosti, vivi o morti, gli ultimi ostaggi del 7 ottobre e il grosso delle milizie di Hamas. I risultati di questa operazione tuttora in corso – denominata «Carri di Gedeone» – sono stati e continuano a essere drammatici. Migliaia le vittime palestinesi, soprattutto civili. Catastrofiche le distruzioni materiali ai danni di edifici, scuole e ospedali. Terribili le condizioni della popolazione: ridotta alla fame, senza possibilità di ottenere un’adeguata assistenza sanitaria, costretta a continui e sempre più massicci esodi forzati, stipata in campi profughi ormai invivibili, priva o quasi di qualsiasi possibilità di accedere agli aiuti umanitari, la cui distribuzione si è più volte rivelata una caotica trappola mortale per responsabilità ancora da accertare.
Lo sconcerto dell’opinione pubblica internazionale di fronte a queste stragi e distruzioni è andato dilagando in tutto il mondo. Centinaia e forse migliaia di manifestazioni per far cessare i combattimenti e contro Israele si sono ripetute ovunque, per lo più in modo pacifico, in un contesto segnato però da fiammate talora violente di antisionismo e talora di antisemitismo. Paesi influenti come la Francia, la Gran Bretagna, il Canada e l’Australia si sono recentemente aggiunti al già lungo elenco di Stati (147 prima del 2025) che riconoscono lo Stato di Palestina. L’isolamento di Israele è andato in scena in modo assai plastico il 26 settembre, quando Netanyahu è intervenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con un discorso dai toni durissimi in cui ha tuonato contro Hamas e negato che nella Striscia di Gaza siano in corso un «genocidio» e la «carestia», affermando che «permettere la creazione di uno stato palestinese sarebbe un suicidio per Israele». Al suo ingresso nell’aula del Palazzo di Vetro, prima ancora che iniziasse a parlare, decine e decine di delegazioni hanno abbandonato l’assemblea per unirsi a coloro che manifestavano contro Israele per strada.
L’opposizione alle politiche ritenute «genocidarie» di Netanyahu e dello Stato di Israele si è infine incarnata, sotto i riflettori del mondo intero, nella missione umanitaria e al tempo stesso simbolico-politica della «Global Sumud Flotilla»: una flotta di una cinquantina di imbarcazioni di piccola e media grandezza su cui navigano diverse centinaia di attivisti provenienti da ben 44 paesi (circa 50 dall’Italia), tra cui Greta Thunberg e alcuni parlamentari italiani. La missione è partita agli inizi di settembre dai porti di Barcellona, Genova, Catania e Tunisi con il duplice scopo – fattosi nel tempo sempre più chiaro – di portare aiuti umanitari nella Striscia di Gaza e soprattutto di forzare il blocco navale israeliano di fronte alla Striscia, in atto dal 2007, secondo molti in violazione del diritto internazionale. Si è trattato di una missione estremamente pericolosa, che all’inizio di ottobre ha lambito le acque internazionali di fronte a Gaza avvicinandosi così a un pericolosissimo teatro di guerra. In queste stesse acque, nel 2010, un analogo tentativo era stato bloccato con la forza da Israele, con un bilancio di 10 attivisti uccisi. Solo pochi mesi fa, nel giugno scorso, un altro tentativo di forzare il blocco navale israeliano da parte di un’altra imbarcazione della Flotilla (su cui erano presenti la stessa Greta Thunberg e altri attivisti ora di nuovo imbarcati) era stato bloccato dalla marina israeliana, questa volta senza conseguenze nefaste. Tra il 1° e il 2 ottobre le imbarcazioni della Flotilla sono state abbordate dalla Marina israeliana e, senza violenze, gli attivisti sono stati arrestati e portati in Israele in attesa del loro rimpatrio.
Nel frattempo, è intervenuto un fatto nuovo di enorme importanza, che secondo molti analisti potrebbe imporre una svolta alla guerra e forse agli equilibri più generali del martoriato Medio Oriente. Il 29 settembre la Casa Bianca ha infatti reso noto un piano per Gaza in 20 punti, che, al netto di alcuni dettagli e con qualche riserva, è stato sostanzialmente accettato da Netanyahu e dall’Autorità palestinese. Il piano è supportato da 8 paesi arabi e/o musulmani (Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Qatar, Turchia, Indonesia e Pakistan) ed è attualmente al vaglio della leadership di Hamas, le cui intenzioni non sono ancora chiare.
Il piano prevede le seguenti misure:
1. la «deradicalizzazione» di Gaza e la sua liberazione dal terrorismo;
2. la ricostruzione di Gaza a beneficio della sua popolazione;
3. la fine immediata della guerra e il ritiro progressivo delle forze israeliane dalla Striscia;
4. la liberazione entro 72 ore dall’accettazione del piano di tutti gli ostaggi vivi o morti;
5. il rilascio da parte di Israele di 250 detenuti condannati all’ergastolo e di 1700 gazawi arrestati dopo il 7 ottobre 2023;
6. lo smantellamento e il disarmo di Hamas, ai cui membri che vorranno lasciare Gaza è garantito un salvacondotto;
7-8. l’invio immediato di aiuti nella Striscia con il ripristino delle infrastrutture civili e sanitarie, di cui dovranno farsi carico le Nazioni Unite, la Mezzaluna Rossa e altre organizzazioni internazionali terze;
9. il governo di Gaza da parte di un comitato palestinese «tecnocratico e apolitico», supervisionato da un organismo internazionale di transizione (il «Consiglio di pace») presieduto dallo stesso presidente Trump e composto da altri capi di Stato e dall’ex premier britannico Tony Blair; tale organismo opererà sino a quando l’Autorità palestinese avrà fatto tutte le riforme necessarie per «riprendere in modo sicuro ed efficace il controllo di Gaza»;
10. l’elaborazione di un piano di sviluppo economico per ricostruire e rilanciare Gaza secondo gli standard delle più fiorenti e moderne città del Medio Oriente;
11. l’istituzione di una zona economica speciale con tariffe preferenziali.
Il piano prevede inoltre
12. che nessuno sarà costretto a lasciare Gaza;
13. che Hamas non potrà svolgere alcun ruolo diretto o indiretto nella governance della Striscia;
14. che i partner regionali garantiranno che Hamas rispetti i suoi obblighi e che la nuova Gaza non rappresenti una minaccia per i suoi vicini e per gli stessi gazawi;
15. che gli Usa con i partner arabi e internazionali costituiranno una Forza Internazionale di Stabilizzazione ((ISF) temporanea da dispiegare immediatamente nella Striscia;
16. che Israele non occuperà né annetterà Gaza e che le Forze di Difesa Israeliane cederanno progressivamente il controllo della Striscia all’ISF, mantenendo però un perimetro di sicurezza che rimarrà sin quando Gaza non sarà adeguatamente protetta da qualsiasi minaccia terroristica;
17. che il piano verrà attuato, qualora Hamas respinga o ritardi il proprio smantellamento, nelle zone liberate dai terroristi, che saranno consegnate dall’esercito israeliano all’ISF;
18. che sarà avviato «un processo di dialogo interreligioso» ispirato ai valori della tolleranza e della coesistenza pacifica per cambiare «la mentalità e la narrativa dei palestinesi e degli israeliani, sottolineando i benefici che possono derivare della pace».
Gli ultimi due punti del piano, infine, fanno riferimento
19. a un «percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese» (corsivo mio), riconosciuta come aspirazione del popolo palestinese e
20. al ruolo che gli Stati Uniti avranno nel dialogo tra Israele e i palestinesi per una «coesistenza pacifica e prospera».
Sono naturalmente molti – come sottolineato da più parti – gli elementi che questo piano lascia indefiniti, in primo luogo relativamente ai tempi del ritiro delle forze israeliane da Gaza. L’adesione di Netanyahu e di molti paesi arabi e/o musulmani lascia ben sperare quanto meno in una fine – almeno temporanea – delle ostilità e dei massacri. I dubbi e le esitazioni di Hamas, invece, non promettono nulla di buono. Qualora infatti il piano dovesse essere respinto, tutto continuerà come e probabilmente peggio di prima. Lo stesso presidente Trump ha promesso di scatenare le forze dell’inferno a sostegno di Israele. Il che incendierebbe forse in modo ancora più aspro l’intero Medio Oriente, con effetti catastrofici sulla stabilità mondiale. Ancora una volta, dunque, «tempi molto pericolosi».
Il convitato di pietra: la Cina
Il conflitto russo-ucraino e quello che sta incendiando il Medio Oriente non sono slegati l’uno dall’altro. Al contrario. Il più grande e potente nemico di Israele è – come si è ripetuto più volte – l’Iran, che è a sua volta saldamente legato alla Russia di Putin. Sono di produzione iraniana – per citare un solo dato – gran parte dei droni e dei missili balistici che la Russia ha utilizzato e continua oggi a utilizzare, sia pure in misura minore, in Ucraina. Nel corso del 2025 i due paesi hanno siglato un importante Trattato di Partnership Strategica Comprensiva di durata ventennale, che riguarda la cooperazione militare, tecnologica, energetica e commerciale. L’Iran e la Russia, a loro volta, insieme a molti altri paesi del Sud globale, hanno rapporti sempre più stretti e in molti casi strategici con la Cina, che è il più potente competitor degli Stati Uniti, vale a dire del più forte alleato di Israele. Unendo tutti i punti delle crisi per ora solo regionali che stanno affliggendo l’Europa e il Medio Oriente, si giunge quindi al nocciolo duro del grande scontro mondiale che si profila in modo sempre più chiaro all’orizzonte: quello tra Stati Uniti e Cina o, se si preferisce, tra il Nord e il Sud globale. Il primo a trazione Usa, il secondo a trazione cinese.
Le due grandi superpotenze del XXI secolo sono in effetti in aperto contrasto non soltanto sul terreno commerciale e finanziario e su quello della competizione economica e tecnologica, come ha dimostrato e continua a dimostrare con plastica evidenza la turbolenta e altalenante vicenda dei dazi che Trump ha portato al parossismo. Esse si confrontano apertamente e aspramente anche sul terreno geopolitico, in particolare nel quadrante dell’Indo-Pacifico, di enorme interesse strategico per entrambe. Il Mar Cinese meridionale e soprattutto Taiwan costituiscono il punto maggiormente critico di questo confronto-scontro (ne parleremo in uno dei prossimi articoli). Ed è proprio a partire da qui che potrebbe scattare la cosiddetta «trappola di Tucidide»: lo scontro tra una potenza egemone che viene sfidata da un’altra potenza in strepitosa ascesa che aspira a sostituire o almeno a contenere la prima. Tra una novella Sparta (gli Usa) e una novella Atene (la Cina).
I presupposti ci sono tutti. Ma nulla, ovviamente, è determinato. Rimane vero quanto ha detto Xi: che il mondo (l’«umanità») può ancora scegliere tra la pace e la guerra, tra una strategia di cooperazione in cui vincono tutti (win-win) e un gioco a somma zero, in cui invece perdono tutti. E tuttavia le «armi che nessuno vorrebbe conoscere» di cui ha parlato Trump e quelle che Xi ha mostrato nella muscolare parata del 3 settembre sono pronte a scatenare l’inferno. Basta un incidente perché la situazione precipiti.
Ha provato a immaginarlo l’ex generale Nato Richard Shirreff, intervistato dal britannico «Daily Mail» il 19 settembre, con un inquietante «esperimento mentale». La terza guerra mondiale potrebbe scoppiare – ha detto il generale – il prossimo 3 novembre, con un cyberattacco contro Vilnius, la capitale della Lituania, tale da creare il panico nei paesi baltici. Di fronte al terrore e ai disordini – una minaccia diretta per l’enclave russa di Kaliningrad, situata tra la Lituania e la Polonia – la Russia, sostenuta dalla Cina impegnata intanto ad alzare la temperatura nel Mar Cinese Meridionale, potrebbe schierare le proprie truppe nella stessa Kaliningrad, in Russia e Bielorussia. Potrebbero quindi iniziare i primi scontri con le truppe lituane. A quel punto scatterebbe il meccanismo previsto dall’articolo 5 della Nato, che prevede – sia pure non obbligatoriamente – l’intervento dell’Alleanza in soccorso di uno dei suoi membri aggredito da una potenza straniera. Trump si rifiuterebbe di intervenire e così, dopo qualche esitazione, la stessa Gran Bretagna. Il che segnerebbe la fine dell’Alleanza atlantica. Nel giro di 5 giorni – 100 ore – la Nato «europea» sarebbe messa fuori gioco dai russi. Nel frattempo, approfittando della situazione, la Cina potrebbe invadere Taiwan, scatenando questa volta la reazione Usa e dunque la «terza guerra mondiale».
Mancano dunque poche settimane all’inizio della fine? Speriamo di no, naturalmente. La data immaginata da Shirreff – il 3 novembre – non rappresenta in alcun modo una «previsione». Serve soltanto a rendere più vivido «l’esperimento mentale». Che tuttavia, a ben vedere, rimane in ampia misura plausibile.